Ha fatto scalpore sui giornali italiani il dato reso noto dall’Ocse a fine giugno: l’Italia spende in previdenza il 14% del Pil, quasi il doppio rispetto ai paesi concorrenti. Si è subito scatenata la corsa a reclamare una nuova riforma (sarebbe la quarta in pochi anni).
Ecco, finalmente, un dato che piace al Cavaliere e a Tremonti e soprattutto ai quotidiani direttamente o indirettamente foraggiati dal Governo, che troppo spesso ultimamente si sono lamentati delle statistiche internazionali sulla crisi economica, sino a richiedere un bavaglio all’informazione economica e a gettare fango sull’Istat. Purtroppo (per loro) i dati internazionali sulla caduta del Pil italiano, dell’export, dei consumi interni e sull’aumento della precarietà e della disoccupazione risultano più che attendibili, mentre i dati Ocse sulle pensioni sono palesemente falsi. Essi infatti confrontano metodologie fra loro non confrontabili. Ma prima di spiegare il perché, è doverosa una breve premessa.
In Italia la vita media di uomini e donne è maggiore rispetto alla media europea. Questo dato da solo basterebbe a giustificare una maggiore spesa previdenziale.
Ma torniamo a ciò che apparentemente ha a che fare con questioni metodologiche, ma che non lo sono. Come sottolineato da Galapagos su Il Manifesto del 25 giugno scorso, la spesa previdenziale italiana è estremamente disomogenea rispetto a quella degli altri paesi. Ci sono almeno cinque voci che contribuiscono a gonfiarla: a) vengono considerate previdenza anche i Tfr e le liquidazioni dei dipendenti pubblici (il che incide per circa 1,5 punti percentuali); b) la spesa viene calcolata al lordo delle ritenute fiscali: cosa che non avviene in Germania (ancora 1,5%); c) in molti paesi è presente una previdenza privata molto ampia (Gb e Olanda) che non viene conteggiata nei sistemi pubblici: d) in quasi tutti i paesi i prepensionamenti vengono considerati come spesa di politica industriale o assistenziale; e) c’è, infine, una spesa totalmente impropria che viene inserita nella previdenza: si chiama Gias, gestione interventi assistenziali, e pesa per oltre lo 0,5%.
Sottraendo tutte queste spese improprie, gli ultimi dati disponibili (31 dicembre 2007) ci dicono che la gestione previdenziale si è chiusa con un attivo pari allo 0,8% del Pil: il sistema previdenziale italiano non crea deficit e debito pubblico, ma lo riduce. Inoltre, sempre sottraendo tutte queste spese improprie, la previdenza italiana incide sul Pil per il 9,5% in linea con la media europea, pur avendo un tasso di anzianità più elevato. Non stupisce quindi che il livello medio delle pensioni in Italia sia di circa il 30% inferiore a quella media europea!
Quest’ultimo dato dipende anche dal fatto che la previdenza privata integrativa (i fondi pensioni) in Italia stenta a decollare. Una delle ragioni è che in Italia ci si è ispirati al sistema a contributi definiti preferiti negli Usa a partire dagli anni ’80, ovvero il sistema secondo il quale tutti i rischi (quello finanziario, l’allocazione di portafoglio e l’erosione del potere d’acquisto) sono a carico del lavoratore. In secondo luogo, come nota la Banca d’Italia, a fronte di un rendimento medio del Tfr del 2,9% negli ultimi dieci anni, i fondi pensioni hanno reso in media meno del 2%. Chi invece ha aperto fondi pensioni negli ultimi due anni (e non dieci!) si trova oggi davanti a una perdita superiore al 6%. Un modo efficace per distruggere i propri risparmi!
Non stupisce quindi la diffidenza verso i fondi pensioni. E appare quanto meno assurdo che oggi si voglia far pagare questa sacrosanta diffidenza ai lavoratori e alle lavoratrici italiani per favorire un sistema pensionistico che è vantaggioso solo per i sindacati confederali, le banche, le assicurazioni, le imprese e lo stato.
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