Ci
abbiamo pensato per bene Il reportage di Panorama sul
mondo del precariato – che qualche buontempone ha definito uno scoop
– come come può essere intepretato ?
Certamente
è un tentativo pacchiano di rigirar la frittata,
di esorcizzare l’emergenza precaria, di ridimensionare un
problema che a destra come a sinistra nessuno sa come affrontare. Ma
nel ripeterci questa motivazione una vocina malevola,
autoconvocata ed impertinente, ci dice che non è
così e che qualcosa non torna. E’ vero questo articolo va
un poco oltre; non cerca semplicemente di normalizzare il
rapporto dei precari con la precarietà, suggerendo un
sentimento di ineluttabile convivenza con essa, bensì in
esso si annida un fine diverso: rimescolare le carte affinchè
si generi confusione. Se la precarietà potesse
essere codificata tramite talune formuline legislative e
compres(s)a in alcune regole abitudinarie piano piano il corpo
sociale svilupperebbe i propri anticorpi, generando nuovi conflitti.
Ma la precarietà non è questo, è innanzitutto
un’idea che cambia assetto continuamente con un unico punto
fisso: ottenere il massimo profitto delle imprese.
E’
per questo che chi tratta la precarietà prima come
un’ emergenza, poi come un’opportunità, e ancora
come una scelta fino a vederne una caratteristica
matafisica della globalizazzione, non dimostra di essere
confuso bensì di voler creare confusione. Digitate
su google le parole archivio panorama e precari e leggete i
titoli.
Schizofrenia
pura.
La
realtà è più semplice. Nell’era della grande
fabbrica, dalla potente classe operaia, la flessibilità –
che assumeva le forme dell’ incostanza, della pigrizia, del
disinteresse, dell’ assenteismo – era considerata dall’impresa una
calamità. Un fenomeno incontrollabile
Oggi
è il lavoratore a vedere nlla flessibilità lo
spauracchio della precarietà e a temerla. Diciamo quindi che
la flessibilità giova a chi la gestisce. Ed essa è
gestita da chi esercita un’influenza più forte ed una stretta
più massiccia sulla vita pubblica e sociale. Oggigiorno
è sicuramente l’impresa ad avere un’idea più
efficace dei valori e dei riferimenti (a lei)
necessari e combinandoli alchemicamente una volta col
ricatto e l’altra col consenso trasforma la nostra vita nel
(loro) profitto. Allora se ne vadano a cagare i narratori della
mediaticità che vogliono spiegarci come si chiama ciò
che, tra l’altro, viviamo tutti i giorni. A noi interessa un’altra
cosa.
La
lotta alla precarietà che idea sottende ? Come
combiniamo la resistenza alla precarizzazione con una
proposizione positiva che ne moduli forme, metodi e obiettivi ?
www.precaria.org
nasce anche
per questo e di questo ne parleremo. Torniamo nel merito del
reportage scoop/pacco
Fra gli
spunti interessanti tre sono le cose che troviamo qui come
altrove, sempre
1)
uno sciorinamento dei dati che sono rigorosamente diversi da
quelli che si è letto in precedenza, altrove.
La
cosa è interessante e significativa: Se ogni volta
il numero di precari viene valutato in maniera diversa è
per un solo motivo: non si sa cosa sono i "precari"
2)
l’implicita accettazione della precarietà come cosa brutta ma
che comunque – usiamo un’espressione popolare – è
meglio che un calcio in culo
Anche
il confronto bruto, acritico e astorico, fra il non aver lavoro
e l’averlo precario ci dice qualcosa: non sanno che cosa è
la precarietà
3) infine
che comunque la precarietà non è brutta insè e
per sè, siamo noi che ci siamo abituati bene. In fondo in
fondo se fossimo meno bamboccioni, abituati male ( ai diritti e al
posto fisso ), maggiormente cosmopoliti e imprenditori, in essa
troveremmo delle opportunità.
Alla
fine è colpa nostra ( come "plurale societatis")
Quest’ultima
cosa invece c’illumina d’incenso ( è voluta ), la
precarizzazione la coscono perfettamente.
Meglio
precari che disoccupati
di Marilena Bussoletti
Impieghi nei call
center, sulle spiagge, nei bar, i lavoratori a tempo sono ormai circa
5 milioni. E la loro non è l’anticamera dell’inferno. Ecco
le storie di chi con il posto «a termine» ci ha
guadagnato. Non solo in soldi.
«Il precariato?
C’è sempre stato. In ogni professione: dall’operaio al
giornalista, dalla commessa all’avvocato. Solo che prima non era
regolamentato. E allora, meglio il precariato che la disoccupazione
giovanile, che sfiorava il 15 per cento all’epoca di mia madre».
Corinna Niccolini, 26 anni, nel cassetto una laurea in legge alla
Luiss di Roma, al terzo contratto a tempo determinato, 800 euro al
mese in una società di servizi, non si unisce al coro dei
precari che hanno manifestato il 7 dicembre a Milano, davanti al
Teatro alla Scala, o che affollano i blog dei sindacati confederali,
Nisid Cgil in testa, che la flessibilità la vedono come una
bestemmia.
Se tutti la pensassero
come lei, in effetti, non ci sarebbero neanche stati gli accesi
scontri politici sul welfare, in sede di discussione della
Finanziaria 2008, per mettere paletti all’uso illimitato di
contratti a tempo determinato e aumentare l’indennità di
disoccupazione. Anzi, Corinna insiste: «Solo in Italia siamo
rimasti abbarbicati al mito del posto fisso, la mobilità
invece può essere un’occasione per crescere».
Luciano Gallino,
sociologo del lavoro all’Università di Torino, spiega: «Ci
sono due condizioni che rendono appetibile la flessibilità:
bisogna essere molto giovani o avere competenze tecnologiche sulla
cresta dell’onda. Occorre vedere poi fra 10 anni che succede. Si
chiama la trappola della precarietà. E non è certo un
problema che riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa».
Sono ormai circa il 15
per cento degli occupati. In pochi anni il numero dei precari si è
ingigantito, indica l’ultimo rapporto dell’Isfol sul lavoro 2007.
La metà dei nuovi posti di lavoro è inizialmente a
termine (più 9 per cento rispetto al 2006), il pianeta atipico
viene stimato in circa 4,5 milioni di lavoratori fra gli occupati a
tempo determinato, i parasubordinati, i collaboratori. Evidenzia il
rapporto Isfol che il contratto di lavoro a tempo determinato è
diffuso fra i giovani e le donne. Molti, secondo un recente sondaggio
di Panorama, sognerebbero magari un bel posto fisso in banca
piuttosto che alla Apple o alla Luxottica, ma devono nella realtà
abbassare le loro aspettative e accontentarsi di lavori meno
garantiti.
Statistiche certe di
come vengono occupati i precari non ce ne sono. Spiega Gallino: «È
complicato contarli, ci sono i numeri Istat, quelli Isfol, i dati
parziali riferibili solo a certi contratti, dell’Inps, dell’Inail.
Ci vogliono molta pazienza e competenza per metterli insieme».
Nella stima di Gallino, secondo il quale gli atipici supererebbero i
5 milioni di occupati, «i precari sono impiegati in settori
come i cantieri edili, per periodi brevi, con contratti di 2 a 3 anni
nell’informatica, nei call center, nell’industria manifatturiera.
I cococo sono nella pubblica amministrazione. E nel privato i precari
svolgono lavori di ogni genere con contratti fra i più vari».
Come Corinna, nel
variegato mondo degli atipici, non tutti hanno una visione così
pessimistica del lavoro. Panorama ha incontrato alcuni lavoratori che
hanno ribaltato i luoghi comuni sul dramma del precariato. Ecco le
loro storie.
Pulisco le
spiagge invece di rubare
Giovanni Bologna,
Palermo. «Fra di noi ci siamo guardati negli occhi. Meglio
lavorare, ci siamo detti, meglio guadagnare onestamente anche poco
che andare a rubare. E qualcuno ci ha scherzato su: "Sì, ha
detto, anche perché oramai cuannu va’ a’ rrobi ti fannu ‘a
fotografia", quando vai a rubare ci sono le immagini delle
telecamere di sicurezza e ti fregano».
Giovanni Bologna ha 49
anni ed è precario fra i precari, a Palermo, città che
si trova a gestire migliaia di disperati alla caccia di un sogno: il
posto pubblico, la sospirata «stabilizzazione». Bologna
pulisce le spiagge: lo fa da 8 anni, assieme a 800 ex detenuti, con
cui vive ogni giorno, a gomito a gomito, passando dagli stabilimenti
balneari di Sferracavallo a Mondello, da Barcarello all’Aspra. «Mia
moglie Felicia ha 45 anni e abbiamo tre figli. Ci siamo sposati dopo
la classica fuitina (la fuga d’amore per mettere i genitori di
fronte al fatto compiuto, ndr), avevo 18 anni io, 16 lei»
racconta Bologna.
Trent’anni dopo solo
il loro matrimonio è stabile: nel lavoro è precario lui
e precaria è lei, Felicia Modica. Prendono 620 euro al mese a
testa dalla Spo, servizi per l’occupazione, società
dell’Italia Lavoro che gestisce un piccolo grande esercito di
precari. «Con difficoltà ma tiriamo avanti»
racconta Bologna «perché abbiamo due figlie ancora a
casa, una di 24 anni e l’altra di 20. La più grande è
diplomata al linguistico, l’altra all’alberghiero, entrambe sono
disoccupate, mentre il mio figlio maggiore ha 28 anni, è già
sposato e lavora. Figli non ne ha ancora fatti, non ha seguito
l’esempio mio e di sua madre: pure lui è precario, trasporta
mozzarelle».
Bologna è però
un inguaribile ottimista: «Non posso dire di essere infelice,
scontento, frustrato. Certo, da 8 anni facciamo questa vita. Più
di una volta mia suocera ha dovuto darci una mano, ma a me sta bene
così, anche se la casa costa, la spesa costa e vivere con
1.200 euro al mese, senza tredicesime, non è il massimo».
Il precariato lo prende con filosofia: «Mi piace essere e
sentirmi utile. Ai miei compagni, che vengono da brutte esperienze di
carcere, droga, insomma da situazioni di svantaggio sociale, che in
una città come Palermo pesano, ripeto che è sempre
meglio la vita di ora rispetto a quella di prima. E loro sono
d’accordo con me».
Bologna è operaio
saldatore specializzato, ma l’azienda in cui lavorava è
andata in crisi negli anni 90. «Può sembrare
paradossale, ma lavorare con la mia qualifica non conviene, perché
oggi, per rispettare le norme di sicurezza, le aziende devono
spendere troppo e non ti mettono in regola». (Riccardo Arena)
Io, ex
disoccupata, ho un contratto vero
Ismene Zumpano, Roma.
Trapiantata a Roma da Sibari a 5 anni, famiglia calabrese, maggiore
di due fratelli, Ismene si è diplomata all’istituto d’arte.
Ha 28 anni e il suo sogno era fare la grafica pubblicitaria. Invece,
dopo quasi 10 anni di disoccupazione, oggi è segretaria. Da 5
mesi ha un contratto a somministrazione (a un’impresa da parte di
un’agenzia interinale), formula prevista dalla legge Biagi, con
ferie, malattia e contributi, in una piccola azienda romana.
Ismene racconta la sua
storia: «Dopo il diploma ho provato a fare la grafica, ma senza
successo. Qualche esperienza in studi, tutto a lavoro nero o gratis,
poi lavoretti, in un pub, in un ristorante». Ismene per
garantirsi un futuro migliore investe tutti i risparmi in un master
di web grafica. «Circa 2 mila euro, guadagnati la sera a
versare vino nei bicchieri. Non ho chiesto niente ai miei genitori,
che già erano delusi che non mi fossi iscritta
all’università». Uno dei tanti master organizzati da
strutture private che tanto promettono e niente danno.
«Allora mi sono
rimboccata le maniche e mi sono messa a fare la segretaria. In
un’azienda part time la mattina a 400 euro, e nel pomeriggio in
un’altra che offriva al massimo 350 euro. Pagamento con ritenuta
d’acconto, insomma una collaborazione continuata. Niente ferie,
malattie, garanzie di sorta. Mi sono resa conto che non sarei mai
stata presa». Mesi fa la svolta: «Mi sono rivolta alla
Ali, agenzia interinale, e poco dopo mi hanno assunto mandandomi in
una ditta che prepara le buste paga. Ho uno stipendio che non mi
sognavo, 1.040 euro. Ho un contratto di 6 mesi. Se vado bene posso
essere assunta a tempo indeterminato, questa è la fortuna dei
contratti a somministrazione. Altre mie amiche sono a progetto e al
massimo possono sperare nel rinnovo».
Ismene non si sente
precaria, si sente baciata dalla sorte dopo tanti anni di incertezze
e frustrazione: «Questa è la realtà lavorativa,
va accettata nei suoi lati positivi». A fine dicembre scadono i
6 mesi. Che succederà? «Non sembrano scontenti di me, ho
la possibilità di passare a tempo indeterminato. Altrimenti
ricomincerò da capo, sono allenata». Il sogno di
diventare grafica è accantonato? «Da grandi ci si deve
ridimensionare. Non è andata, pazienza. Il mio sogno lo
coltivo comunque, dipingo quadri». (Marilena Bussoletti)
Preparo
hamburger poi vado a ballare
Manuel Incorvaia,
Milano. «Lo stipendio mi basta e il lavoro non è male.
Con i colleghi vado d’accordo, conosco gente nuova e ho il tempo di
andare in discoteca. Il posto fisso? Per ora non mi interessa».
Manuel Incorvaia, 20 anni, ha le idee chiare. Da 2 mesi lavora come
apprendista, con un contratto di 3 anni da Burger King in piazza
Duomo, a Milano. Turni di 8 ore, con un giorno di riposo a settimana.
Quello di mattina inizia alle 10, la sera invece chiude a mezzanotte,
per 1.000 euro al mese.
Affitto, cibo,
sigarette, telefono: le spese sono tante. Manuel però ogni
mese riesce a mandare qualcosa a casa. Racconta orgoglioso: «Spedisco
a mia madre 300 euro del mio stipendio, lei non sta molto bene e così
io e le mie due sorelle la aiutiamo». E dei 1.000 euro già
300 vanno via. Poi ci sono i 350 euro di affitto per il bilocale che
divide con un amico in zona Corvetto, periferia sud.
Ma non è tutto.
Manuel è arrivato a Milano 2 anni fa con un diploma da grafico
pubblicitario. «Ho scoperto però che la pubblicità
non mi affascina, vorrei lavorare sul trucco cinematografico o
teatrale. Per inviare curriculum però serve un corso serio, e
per il corso servono i soldi, così cerco di risparmiare.
Quanto metto via? Dipende, 100 o 150 euro». Facendogli un po’
di conti in tasca ne restano più o meno 250. Come fa a vivere
e a divertirsi?
«Quando faccio il
turno di sera e non sono stanco, vado in una discoteca di amici e mi
pagano per fare il ragazzo immagine». La stessa dove ha
lavorato come barman non appena arrivato a Milano. Ha conosciuto
parecchia gente in questi 2 anni. Anche proprietari di altri locali.
«Per questo» dice sorridendo «spesso entro gratis
in discoteca». L’arte di arrangiarsi l’ha imparata da
piccolo: «In Liguria, sotto casa, c’era un negozio di frutta
e prima di andare a scuola scaricavo le cassette dai camion e la
proprietaria mi dava un po’ di soldi. D’estate poi ho fatto il
bagnino, il gelataio e il cameriere».
Lavori che gli hanno
permesso di stare a contatto con la gente. Come d’altronde quello
da Burger King. «All’inizio lavoravo alla cura della sala,
capitava che qualcuno si fermasse a parlare e poi ci si scambiava i
numeri di telefono». E Natale? «Sono l’ultimo arrivato,
se non ci saranno ferie pazienza. Il lavoro è lavoro».
(Antonella Palmieri)
Libero e
ambizioso
Non voglio
scrivanie
Tommaso Leporati,
Torino. «Se vuoi conoscere bene gli animali, devi essere
paracadutato nella giungla e lì non c’è protezione.
Il problema non è un lavoro precario. Il vero problema è
che la società non capisce la flessibilità e ti
penalizza». Tommaso Leporati, torinese, 36 anni, più che
un posto fisso cerca soddisfazioni. Una laurea in giurisprudenza e
tante esperienze alle spalle. Nel 2001 ricercatore al Cie (Centro
d’iniziativa per l’Europa) per 1.400 euro al mese, poi l’Unione
Europea taglia i fondi e Tommaso si trasferisce per 2 anni a Berlino.
Torna in Italia nel
2004, lavora nelle comunità montane dei paesi più
sperduti delle Alpi, con stipendi dai 900 ai 1.000 euro. Nel
settembre 2006 ottiene un contratto a tempo determinato dal consorzio
di ricerca gestito dal Politecnico e dalla Regione Piemonte: 1.375
euro lordi. Spiega Tommaso: «Lavoro per esprimere la mia
creatività e raggiungere un obiettivo».
Negli uffici della
direzione di programmazione strategica Leporati seleziona i progetti
presentati dagli enti pubblici e privati per ottenere un
finanziamento regionale. Il 31 dicembre il contratto scade, ma lui
non è turbato: «Quando ti assumono perché ci sono
progetti da realizzare e non solo risorse da impiegare, ti senti
parte di qualcosa. Il mio orgoglio è avere raggiunto dei
risultati. Se avranno ancora bisogno di me, sarò contento,
altrimenti cercherò qualcos’altro».
Non è benestante
di famiglia, non ha un conto alle Cayman e vive in affitto.
«L’incertezza pesa sulla voglia di fare progetti a lungo
termine, ma non mi dispiace essere un nomade dal punto di vista
mentale. Certo, il contratto d’affitto è annuale, ma se va
male ci sono 6 mesi di preavviso». Più che la garanzia
di un lavoro trentennale a Tommaso piace mettersi in gioco, avere
responsabilità. «E a me la Regione le ha date».
Fare il cuoco a Londra o il pony express non è un problema.
«La pensione? Magari chi ce l’ha non ha avuto una gioventù
bella come la mia». (Antonietta Demurtas)
Caccia allo
scoop
E al contratto
Valerio Castellano,
Napoli. Da 3 anni fa il cameraman a tempo determinato a Sky Tg 24. È
approdato al telegiornale come operatore di ripresa nel novembre
2005, «dopo aver lasciato un contratto a tempo indeterminato in
un’importante agenzia televisiva napoletana». Un incauto che
lascia il posto fisso? «Ho 33 anni, mi piace cambiare e mi
affascinava l’idea di poter fare questo lavoro» spiega
Castellano, che lavora soprattutto in Campania, spesso imbracciando
la telecamera per filmare episodi di cronaca nera a Napoli.
L’assunzione a termine
al telegiornale è arrivata sulla base di un curriculum spedito
ai responsabili dell’ufficio del personale. «Mi è
stato detto: niente posto fisso, ma un trattamento economico e
normativo adeguato alla sua professionalità e aggiornamento
professionale garantito. Mi sono sentito subito parte di una
squadra».
È soddisfatto
Castellano: «Guadagno più di prima, ho imparato a fare
l’operatore satellitare, cioè a muovere quei mezzi con gli
antennoni sul tetto, le parabole, e ho capito come si montano i
servizi per il tg. Insomma, ho fatto molti passi in avanti».
Certo, il posto fisso è
sempre meglio. «Sì, ma nessuno mi ha detto che non potrò
averlo. Sono contento quando mi fanno i complimenti perché ho
trovato immagini esclusive, quando il mio responsabile tecnico mi
dice bravo».
Castellano è
tranquillo: «Punto su me stesso. Se lo meriterò mi
daranno questo benedetto posto fisso. Intanto, già è
positivo il fatto che non mi facciano sentire un precario frustrato».
Precario e contento, dunque? «Vabbè, non esageriamo».
(Pietro Ruggiero)
Sono il
prototipo del precario felice
Marco Fiori, Modena.
Responsabile comunicazione dell’Acimac, l’associazione della
Confindustria dei costruttori di macchine per la ceramica, Marco
Fiori, 33 anni, si definisce il «prototipo del precario
felice». Ruolo che ha scelto, rifiutando varie volte di essere
assunto. E non ha mai avuto dubbi: «Fra pro e contro, sono i
pro a vincere. Nettamente». Perché, dice lui, la
«libertà di mettersi in gioco giorno dopo giorno non ha
prezzo».
Quello che per molti è
un incubo, insomma, per Marco è uno stimolo a migliorare: «Il
precariato ti costringe a puntare sulla qualità del lavoro.
Proprio perché non hai certezze, ogni giorno investi sulla tua
professionalità. Serve un profilo professionale medio-alto.
Altrimenti, ci credo che il precariato è difficile da gestire.
Serve insomma un’alta specializzazione perché è
importante che il ritorno economico sia al di sopra della media».
E i contro? «Quando
parti per le ferie ti domandi sempre se sia il momento giusto e poi
ti rispondi che tanto 2 settimane non cambiano nulla. La vera svolta,
infatti, sta nel lavorare per soggetti che riconoscono la qualità
e il lavoro che fai su te stesso. Se i progetti che segui ti aprono
nuove possibilità, i problemi si superano».
La vita di Marco è
stata finora all’insegna del cambiamento: da collaboratore per
giornali locali è passato agli uffici stampa di alcuni comuni
del Modenese, con puntatine all’ausl e in alcune campagne
elettorali. Poi l’esperienza alla Conf commercio di Modena come
responsabile di zona del distretto
Sassuolo-Fiorano-Formigine-Maranello.
Assessore per 3 anni a
Sassuolo con delega a giovani, politiche europee, contenitori
culturali e comunicazione, da due anni è tornato all’Acimac
dove aveva già avuto una breve esperienza. Quanto conta la
fortuna? «Magari ci vuole anche un po’ di fortuna, ma di
sicuro una buona dose di autostima. Perché le insicurezze
personali facilmente possono riversarsi sul lavoro. Con effetti
deleteri». (Simonetta Cotellessa)
Pronto? Il
telefono,
la mia salvezza
Giovanna Bellacci,
Pistoia. Precaria e contenta a 50 anni in un call center, Giovanna
Bellacci, fiorentina, colleziona contratti a progetto alla Answers di
Pistoia. Vive nel mondo dei lavoratori atipici senza farsi prostrare
dal miraggio del posto fisso. Anzi: «I contratti a progetto non
sottintendono per forza rapporti di lavoro sbagliati, come a volte
emerge dai luoghi comuni. Un call center non è per forza un
luogo alienante, non è solo rispondere al telefono, ma anche
impadronirsi delle tecnologie, imparare a risolvere velocemente i
problemi».
Giovanna, prima di
approdare al call center è stata imprenditrice, commessa
part-time e assicuratrice: «Divorziata, con un figlio da
crescere e due genitori anziani da accudire, per me lavorare su
progetto ha significato poter gestire la famiglia grazie a una certa
flessibilità negli orari che puoi contrattare, cosa che non è
scontata per un lavoratore dipendente».
L’azienda dove lavora,
la Answers, che fornisce servizi per clienti di vario tipo tra cui
Tim, Telecom, Enel, banche come Mps, Bcc, Bpi, Cr Firenze, società
come Henkel e Palmera, fu la prima impresa italiana (era il 2000) a
firmare un accordo coi sindacati che prevedeva diritti e sistemi di
tutela per i lavoratori atipici. Bellacci era tra loro e oggi si
sente una propugnatrice dei contratti a progetto pur riconoscendo che
il lavoro dipendente dà una serie di garanzie.
Come tutti, nel call
center anche Giovanna Bellacci sta davanti ai telefoni, ma nel tempo
ha esteso i suoi compiti. «Potrà sembrare strano, ma qui
ho imparato un sacco di cose. Mi sono occupata di formazione, ho
coordinato gruppi di lavoro per programmi differenti, ho gestito
situazioni di "problem solving" difficili». Ogni volta lo
ha fatto con un nuovo contratto da cocopro. Giovanna, diploma in
ragioneria e studi in filosofia alle spalle, spiega: «Pensiamo
al computer. Una persona della mia generazione rischia di venir
tagliata fuori da questa competenza. Io no». (Michele Giuntini)
Così mi
sono pagato l’università
Alessandro Anzolin,
Portogruaro (Ve). «Dico grazie ai lavori precari. Mi sono
serviti per pagarmi l’università, garantendomi anche i soldi
per uscire con gli amici e fare il pieno di benzina».
Alessandro Anzolin abita a Lugugnana di Portogruaro, in provincia di
Venezia, ha 26 anni e il primo impiego lo ha trovato a 19, subito
dopo il diploma di maturità scientifica. «Volevo
approfittare dell’estate per racimolare qualche euro ma a luglio
era ormai troppo tardi per un lavoro stagionale.
Così mi sono
rivolto a una agenzia di lavoro interinale che da allora, ogni
estate, mi ha trovato vari impieghi, come operaio o magazziniere in
aziende della zona, spesso della durata anche solo di una settimana».
Il guadagno? «Tredicesima e tfr compresi, 250-300 euro la
settimana».
Da un anno e mezzo
Alessandro ha un contratto part-time a tempo determinato come addetto
al magazzino e spedizioni per un’azienda di Portogruaro, attività
che lo occupa 3 ore la sera, dal lunedì al venerdì: «La
mattina frequento l’università, il pomeriggio studio, dalle
18.30 alle 21.30 sono al lavoro. Guadagno 500 euro al mese, ma queste
esperienze sono state per me molto positive, l’ideale per inserirsi
nel mondo del lavoro pur continuando a studiare». Alessandro
sta per laurearsi in ingegneria elettronica. «In futuro però
spero di trovare un posto come ingegnere».
Fonte: www.panorama.it
26 dicembre 2007
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