Ecco, come promesso, la seconda puntata delle narrazioni raccolte da City of gods tra i redattori editoriali della Rete re.re.pre. Anche in questo caso l’intervistata è una donna. Aspetto interessante del racconto della nostra eroina di questa settimana è, oltre all’immancabile descrizione di un’annosa precarietà, il fatto che segua da co.co.co l’intero processo di confezione di una rivista di settore. Continuate a seguirci, altre storie vi aspettano!
Descrivi il tuo lavoro a qualcuno che non lo
conosce
Lavoro in una casa editrice che
pubblica riviste di settore. Sono una redattrice "interna" per
una testata mensile, con una mia scrivania, un telefono con linea
diretta, una mail aziendale che ovviamente non riporta il mio nome e
cognome ma un asettico numero, che comunque fa capo a me. In pratica,
"taglio e incollo" gli articoli che giungono in redazione da
parte dei collaboratori esterni, per adattarli e uniformarli alla
rivista, curandone tutti i vari passaggi – dal testo in word
all’impaginazione fino alla correzione delle bozze finali – e
scrivo in prima persona articoli. Ogni mese, il lavoro si ripete
identico da quasi dieci anni.
Descrivi il tuo contratto a qualcuno che non lo conosce
Sono co.co.co.: sì, questa forma
contrattuale esiste ancora, nonostante tutti siano convinti che
oramai esistano solo assunzioni a tempo indeterminato o contratti a
progetto. Per quei lavoratori che operano nella sfera
"dell’intelletto" (definizione imprecisa, e a mio parere
classista e anacronistica, che include un oceano di professioni e
lavoratori) e per coloro che sono iscritti a un ordine professionale
(giornalisti, pubblicisti o professionisti, o architetti, per
esempio) la legge 30, che ha trasformato i co.co.co. in contratto a
progetto, fa eccezione e prevede che si applichi ancora il contratto
di collaborazione coordinata e continuativa. Guarda caso (non è così
difficile!) il mio lavoro rientra nella definizione di cui sopra e
sono anche giornalista pubblicista (tesserino conquistato nella
speranza di essere maggiormente appetibile per il mercato del lavoro,
ma invano, visto la stagnazione e la tendenza allo sfruttamento del
mio settore). Una vera fregatura dal momento che non puoi neanche
fare causa al tuo datore di lavoro, che ti può mantenere in questo
limbo, o anticamera dei diritti, per tutta la vita ("il tuo
contratto è rinnovabile anche fino a 90 anni", mi sono sentita
rispondere dal sindacato). Il risultato è che superati i trenta da
un bel pezzo sono ancora precaria e senza nessuna speranza di
migliorare la mia condizione. Per quale motivo, infatti, il mio
datore di lavoro si dovrebbe accollare la mia assunzione, se anche la
legge è dalla sua parte?
Quanto (e cosa) hai studiato per fare ciò che fai?
Sono laureata in lettere moderne, ho
frequentato a pagamento e a tempo pieno una scuola di
specializzazione in editoria della durata di un anno, comprensivo di
stage di tre mesi.
Quante ore lavori al giorno? Lavori
anche il we?
Lavoro circa otto ore al giorno, dal
lunedì al venerdì. Se esco prima dell’orario d’ufficio (le
18.30) o arrivo troppo tardi (dopo le 9.30), me lo fanno
pesare, e al primo errore ne approfittano per rimproverarmi l’
orario elastico (da noi, tra l’altro, vale l’ipocrita abitudine
di farsi vedere in ufficio fino tardi, anche se in realtà si
cazzeggia su Internet e lo si è fatto tutto il giorno). Le ferie le
devo concordare e mi sono anche sentita rispondere che non ne ho di
ferie (infatti il mio contratto non le prevede, così come non
prevede neanche la presenza in ufficio e il lavoro
subordinato..).
Lo "fai" in casa o in ufficio?
Più "normale" in casa o in ufficio?
In teoria il mio contratto dice che
non ho obblighi di presenza in ufficio, ma, a parte il fatto che non
me lo permetterebbero, mi risulterebbe anche difficile lavorare da
sola a casa mia davanti al mio pc, senza grafico o segretaria di
redazione su cui fare reciproco affidamento. Forse potrei solo quando
si tratta di scrivere i miei pezzi, ma le telefonate per le
interviste chi me le paga? E il collegamento a Internet? In una
redazione il lavoro è indubbiamente di squadra.
Quanto guadagni in un
mese?
Mille e duecento euro.
Ora diamo i numeri: quanti, più o meno, sono nelle tue
condizioni,
nella tua realtà? Stessa tipologia di contratto o
diversa? Quante
tipologie di contratto?
Nel mio ufficio quasi tutti, a parte
il capo, con la differenza che chi è arrivato dopo ha subito vincoli
di orario, prestazioni, mole di lavoro e condizioni economiche ancora
peggiori. Nel mio settore sono tantissimi, quando ci ritroviamo tra
noi colleghi è una desolazione. In quelle case editrici dove sono
arrivati gli ispettori ora non lavora più nessuno, a parte un
coordinatore assunto, hanno lasciato tutti a casa e il lavoro di
redazione viene svolto da un server editoriale esterno. A chi
collabora esternamente scrivendo gli articoli va peggio, perché la
paga è da fame (a cartella o battute) e il pagamento a 60 gg. dopo
l’uscita della rivista.
Dove sta il valore del tuo
lavoro, per te? Dove sta il valore del tuo
lavoro, per loro?
Per me il valore del mio lavoro sta
nella passione per una professione che mi piace e che mi fa
sopportare (non accettare) queste condizioni, ma questa è anche la
mia fregatura! Per loro il valore del mio lavoro sta nello spremermi
finché possono con la possibilità e l’agio di lasciarmi a casa in
qualsiasi momento, quindi senza troppi riguardi nei miei confronti,
forti di questo ricatto latente e continuo. Con alcuni miei colleghi
hanno fatto esattamente così.
Chi compra un libro tutto
questo lo sa?
Chi legge una rivista o un libro secondo me lo
sa, come quando andiamo al supermercato e sappiamo quali sono le
condizioni di lavoro della cassiera che abbiamo davanti, ma facciamo
finta di niente, anzi, magari ci lamentiamo perché non è abbastanza
veloce.
Ti senti fregato? Se sì: chi
ti ha fregato e perché?
Mi sento fregato ogni giorno, dalle
istituzioni, dalla classe politica, dall’università, da chi
perpetua e rende possibile questa discriminazione (sì, lavorare per
quasi dieci anni e non avere mai visto una tredicesima o non avere
tfr è una discriminazione. Forse possiamo fare ricorso al tribunale
dei diritti umani? Non ci abbiamo mai pensato. Potremmo raccogliere
un mare di firme e presentare una richiesta..). Mi sento stupida,
perché sopporto tutto questo, e mi sembra che mi abbiano rubato il
tempo, perché questo limbo non finisce mai, ho passato tanti anni a
studiare per un lavoro poco pagato e senza diritti, e ora mi sento
troppo vecchia per cambiare strada o avere figli.
Enuncia un sentimento verso
l’editore oppure verso i tuoi capi
Sono aguzzini, sfruttano le
maglie troppo larghe della legge per i loro interessi. Non è giusto
che lo facciano ma è ancora più ingiusto che la legge glielo
permetta.
Esprimi un desiderio che riguardi il tuo lavoro
Vorrei
poterlo svolgere senza provare la sensazione che mi stiano fregando,
lasciandomi andare alla soddisfazione di star dando qualcosa di me, e
di sentirmi realizzata in questo. Se fosse così sarebbe il più bel
lavoro del mondo (qualunque esso sia).
Che cosa stai provando a fare per combattere questa
situazione?
Provo a creare opinione, diffondere la
consapevolezza, invitare le persone a riflettere e chi di dovere ad
accorgersi di questa situazione. Ma in ufficio devo stare attenta,
faccio tutto in clandestinità, perché ho già avuto problemi e mi
hanno minacciato che non mi avrebbero rinnovato il contratto. I miei
colleghi evitano di esporsi, sarebbe diverso se fossimo insieme a
dire le cose, dalle più piccole a quelle più importanti, ma non è
così. E in ufficio stiamo sicuramente pagando, giorno dopo giorno,
il silenzio di questi anni.
Quanti dei tuoi colleghi sono
d’accordo con te?
In linea teorica sono d’accordo ma
non si vogliono esporre, preferiscono conformarsi e non creare
problemi.
E’ difficile far coinvolgere altri colleghi? Se
sì, perché?
Perché hanno paura delle ritorsioni,
dal peggioramento delle condizioni di lavoro (senza un sindacato a
cui appellarsi o un contratto che faccia da argine) alla minaccia di
essere lasciati a casa in una fascia di età che – ricordiamolo –
è tra i trenta e i quaranta anni, quando non hai più tutte le porte
aperte sul tuo futuro, sei ormai vecchio per il mercato del lavoro
(soprattutto se sei donna), non vivi più in casa, hai un affitto o
un mutuo (se hai dei genitori che hanno potuto farti da garanti) e
magari una famiglia. Senza contare che questa situazione di
precarietà indebolisce umanamente le persone, le rende più fragili,
innocue e inoffensive: proprio come ci vogliono. Ho visto diventare
così alcune persone, per colpa del lavoro. Anche quando tornano a
casa si portano dentro il giogo della situazione che vivono in
ufficio.
La soluzione si potrebbe trovare se…
A qualcuno importasse realmente
qualcosa del benessere delle persone, della loro crescita umana,
aldilà della forza lavoro o dell’indice di sfruttamento e profitto
potenziale che rappresentano. Ma la società va in tutt’altra
direzione. La soluzione sta in un cambiamento radicale nel modo di
concepire i rapporti di lavoro e i rapporti tra le persone, in
generale. Non siamo ancora pronti né mai so se lo saremo. Dopo di
noi ci sarà qualcun altro da sfruttare, per questo la nostra lotta
non può essere corporativa (i redattori o i giornalisti) ma deve
avere un respiro e un’ottica più ampia.
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