Oggi e domani si vota sull’accordo-capestro di Mirafiori. E’ stata imposta una scelta che non ha nulla di democratico. Un referendum è tale quando consente una libera scelta tra due opzioni, senza che ciò vada a incidere sulle condizioni di esistenza dei partecipanti al referendum. Non è questo il caso di Mirafiori. Qualunque sia l’esito, infatti, tutti i lavoratori ci perdono: o in termini di diritti e condizioni di vita e salute o in termini di lavoro e reddito.
L’accordo di Mirafiori (e prima quello di Pomigliano) ci dicono chiaramente che cosa è oggi la democrazia politica (la democrzia economica non è mai esistita)in questo paese: l’arte dell’imposizione di un interesse particolare, spacciato come generale. Prima si schiacciavano i diritti in nome della competitività, della flessibilità come strumento di crescita, del controllo dell’inflazione e del debito pubblico. Ora con la crisi l’approccio è diretto: o la borsa o la vita! Anche i modi si sono fatti espliciti: con la forza o con la corruzione. Dal regime economico al regime politico tutto si compra (dai sindacati ai partiti); chi pretende politica viene zittito. Per i migranti e il precariato in generale, così come per gli studenti e gli operai, non c’è mediazione che tenga.
L’accordo di Mirafiori è ancor più peggiorativo di quello di Pomigliano. Se a Pomigliano non c’è stata trattativa ma un diktat stile “prendere o lasciare”, a Mirafiori si aggiunge la negazione della visibilità e dell’agibilità politico-sindacale del sindacato riottoso. È il preludio di un nuovo modello di governance delle relazioni industriali che riprende e allarga ciò che già avviene a livello istituzionale. Regime politico e regime economico non sono altro che due facce della stessa medaglia. Si chiede agli operai di votare a favore dell’incremento del proprio sfruttamento. Cominciamo a riutilizzare questa parola, che i precari già conoscono molto bene: sfruttamento. E come diversamente si può chiamare l’aumento di un turno alla settimana, la riduzione di 10 minuti delle pause, lo spostamento della mensa a fine turno, l’obbligo di 120 ore di straordinario (estendibili a 200 se l’azienda lo richiede), il non pagamento dei primi due giorni di malattia? Il tutto per un incremento mensile di poche decine di euro!
San Precario non può che essere contrario ad un simile accordo-capestro. Anche perché tutto questo ci porta a ciò che San Precario ripete come un mantra da alcuni anni. La condizione di precarietà è generalizzata; non riguarda solo chi è contrattualmente precario con un rapporto di lavoro atipico: riguarda anche chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Perché chiunque sa che basta un niente – una delocalizzazione, una ristrutturazione, una dichiarazione di stato di crisi (più o meno presunta) – a far sì che da un giorno all’altro un lavoro stabile si trasformi in lavoro precario. E la vicenda della Fiat ci ricorda che la precarietà non riguarda solo l’intermittenza di lavoro o il rischio di chiusura, ma anche le condizioni di lavoro e di salario.
Ci vediamo agli Stati Generali della Precarietà il 15 e 16 gennaio a Rho, C.S.Fornace, Via Moscova 5.
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