L’effetto Berlusconi

Thanx: Alfabeta2.04 – mensile Novembre 2010
Anomalia Italia

Slavoj Žižek
L’effetto Berlusconi
Intervista di Antonio Gnoli

Si può analizzare un fenomeno mediatico, politico, culturale qual’è da quasi un ventennio Silvio Berlusconi, senza lasciarsi condizionare dal fastidio che l’«oggetto» in questione sovente provoca in chi lo analizza?
Non è una forma di neutralità che si invoca, ma una connessione più attenta tra superficie e profondità: diciamo tra il volto-maschera, al quale c’ha abituati nelle sue molteplici apparizioni televisive e l’anima-merce, nella quale albergano desideri, finzioni, progetti. Per molti italiani egli è l’uomo del sogno: figura temibile e consolatoria, a un tempo, le cui parole, quando vengono pronunciate, hanno per lo più un carattere fuggitivo. Nello schema generale del suo linguaggio rassicurante (legato all’idea del fare) le variazioni sono minime, e la mobilità è massima. Nel senso che Berlusconi tende a dire sempre le stesse cose, ma nel dirle – come accade nei sogni – le parole hanno un carattere volatile e lievemente ipnotico. Quel linguaggio diverte e rassicura coloro che ne sposano i contenuti. Egli incarna un potere «grottesco»: esilarante, minaccioso, imprevedibile, efficace. C’ha colpiti il modo col quale, qualche tempo fa, sulla «London Review of Books» Slavoj Žižek riportava quel potere all’ironica immagine di un Panda, protagonista di un cartoon di successo. Ed è la ragione per cui abbiamo voluto incontrare questo intellettuale che con grande libertà ha messo assieme Lacan e il cinema, indagato Freud e Marx e preferito il moderno al «post». Žižek non si considera un esperto di Berlusconi e soprattutto – tiene a precisare – pensa che per molti versi il problema non sia lui, ma che lo stesso Berlusconi sia l’effetto di un processo più generale che non coinvolge solamente l’Italia. Il discorso, dunque, non può che cominciare dall’intreccio tra due figure cardine della modernità: politica ed economia.

Lei sostiene che sia stata recisa ogni connessione fra democrazia e capitalismo. Com’è accaduto? E cosa sostituisce oggi quel legame?
Sì, nella mia interpretazione questo accade soprattutto in Cina, anche se non solo lì. Qualche tempo fa il mio amico Peter Sloterdijk mi confessò che dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, la sua risposta sarebbe Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore. È stato lui a inventare quella pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare «capitalismo asiatico»: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro ma che può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia. Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le riforme e si convinse che quel modello andava applicato alla Cina.

La Cina, insomma, è il sorprendente laboratorio nel quale si progetta il nostro futuro?
Diciamo che ci sono alcuni elementi che vanno in quella direzione. Se un nuovo modello si afferma e condiziona mondi culturalmente lontani, non si può non valutarne la forza di penetrazione. Sia Sloterdijk che io pensiamo che la scissione tra democrazia e capitalismo si stia lentamente espandendo. Se ne osservano elementi in Russia e, sebbene sarebbe chiaramente folle sostenere che l’Italia sia già uscita dalla democrazia, vedo anche qui tendenze non tanto alla sua sospensione formale, quanto alla sua neutralizzazione: si tende a rendere la democrazia irrilevante. Il punto è fare in modo che la gente accetti che i meccanismi democratici non siano davvero importanti, che esprimano un rituale completamente vuoto.
Del resto vedo aspetti di questo processo anche negli Usa. Quando esplose la crisi finanziaria, fu messo in discussione il primo grande intervento pubblico da, mi sembra, 700 miliardi di dollari. Alla prima votazione – Bush era ancora Presidente – il Congresso votò contro con due terzi dei suffragi. Cosa accadde? L’élite politica di entrambe le parti – Bush, Obama, McCain eccetera – si rivolse al Congresso più o meno con questi toni: «Ascoltate, non abbiamo tempo per questi giochetti democratici, questa roba bisogna approvarla e basta»; una settimana dopo, il Congresso rivotò ribaltando totalmente la sua precedente decisione. Non è dunque questione di individui pazzi o autoritari: no, c’è qualcosa nel capitalismo contemporaneo che spinge in questa direzione.

Si può dire che, rispetto al passato, la situazione si sia enormemente complicata. La famosa «globalizzazione» ha dilatato problemi che tradizionalmente trovavano una soluzione
nell’ambito degli Stati-Nazione. Oggi non è più così. Con quali effetti per la democrazia?

Credo che i meccanismi democratici non siano più sufficienti ad affrontare il tipo di conflitti che si prospettano all’orizzonte (sull’ecologia, le grandi migrazioni, le rivolte locali, ma anche altri relativi al funzionamento intrinseco del capitalismo: dalla proprietà intellettuale alla crisi finanziaria). Sembrano richiedere un «governo di esperti» molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare, e lo metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi. Ma è un esito molto triste: se finora, nonostante tutto, c’era un buon argomento a favore del capitalismo, ovvero che prima o poi, magari dopo qualche decennio di dittatura come in Sud Corea o in Cile, l’avvento del capitalismo avanzato avrebbe poi implicato la democrazia – ecco, tutto questo non accade più. Ed è un fenomeno davvero nuovo, un’epoca nuova, direi. Ma il punto, si badi bene, non è criticare la democrazia in sé; bisogna comprendere come la democrazia si stia autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico.

Il che ci porta all’oggetto del nostro incontro. A quale genere di democrazia ha dato dunque vita Berlusconi?
Mi sento di ribadire che forse voi italiani vi concentrate troppo su Berlusconi come causa dei mali che vi affliggono. In realtà bisogna vederlo come effetto. Non dimentichiamo le circostanze in cui è «sceso in campo»: lo scandalo di Mani pulite e il vuoto di potere che si creò con la scomparsa di un’intera élite politica. Certo, fin dall’inizio il suo progetto ha presentato elementi originali: Berlusconi ha davvero inventato qualcosa. Quel che ha introdotto è, formalmente, ancora una democrazia ma che, come tutti sappiamo – questo punto è stato trattato fino allo noia –, funziona in modo diverso: è, voglio dire, una democrazia ipermediatizzata, soggetta allo spettacolo pubblico. Ma c’è un secondo aspetto, per me molto importante, su cui vale la pena richiamare l’attenzione: la scissione del processo politico in sé – il processo di governare un paese, il decision making – dallo spettacolo mediatico, dalla dimensione dello scandalo pubblico, con tutte le sue conseguenze.

Lei allude agli scandali sessuali che hanno pesato sulla figura del premier?
Sì. Ma occorre capire perché quando c’è uno scandalo sessuale, tutti si occupano di quello, ma in maniera completamente dissociata da ciò che veramente accade. Berlusconi – non dovremmo dimenticarlo – non è solo un clown: ci sono cose che accadono davvero, decisioni politiche gravi che vengono realmente prese. Questo gap caratterizza la politica oggi.

Questa «dissociazione» impedirebbe di cogliere l’effettiva strategia del potere berlusconiano?
È come se mi concentrassi sull’albero, perdendo di vista la foresta. Un potere è sempre un risultato complesso. Si pensi a un altro aspetto originale di Berlusconi. È riuscito a marginalizzare la sinistra, e a stabilire una nuova polarità politica fra quello che potremmo definire un orientamento liberale neutro e tecnocratico e una reazione populista. Questo è perfettamente chiaro in Polonia: l’attuale premier Donald Tusk è un puro tecnocrate liberal e i due gemelli Kaczyn´ski (almeno fino a quando l’incidente aereo non ha sciolto definitivamente questa coppia), – sorta di Tweedledee e Tweedledum, i due matti di Alice nel paese delle meraviglie, saliti al potere – populisti al massimo grado. Berlusconi fa qualcosa di più: riunisce le due polarità. È certamente un tecnocrate brutale, efficientista, ma allo stesso tempo presenta chiari elementi populisti. Forse questa combinazione è politicamente la più pericolosa, ed è in questa direzione che egli si sta muovendo. Nel momento in cui Berlusconi ha occupato tutto lo spazio, non ne lascia all’opposizione: è la magia del funzionamento dello spazio simbolico. Naturalmente non sto affermando che siete uno Stato di polizia: l’Italia funziona ancora, ma è tuttavia avvertibile questo effetto di assenza di spazio, che mette l’opposizione nella difficoltà di definire se stessa. Ci si può chiedere a questo punto se ci sia davvero, nell’attuale sistema, una grande alternativa a Berlusconi. Può la politica liberista offrire di più che un «Berlusconi dal volto umano»? Io credo di no.

Lei sostiene che il modello Berlusconi è un oggetto molto più complicato di ciò che appare e che, in qualche modo, impone un linguaggio anche a chi è antiberlusconiano?
Non si può prescindere dallo spazio simbolico che egli ha costruito e che condiziona qualunque azione che cerchi di ridurne l’efficacia. Ciò che suggerisco è di non farsi comunque ipnotizzare dallo spettacolo in corso, dall’aspetto clownesco, dall’evidente corruzione: cerchiamo di rivolgerci le domande essenziali. Certo, è un fatto forse unico nei tempi moderni che un premier, attraverso i suoi avvocati, dica di esser pronto a dimostrare in tribunale di non essere impotente. Ma è molto più importante l’altra faccia di Berlusconi. Quegli aspetti che potrebbero apparire secondari, ma che per me sono presagi inquietanti. Per esempio – mi chiedo – quanti italiani sanno di vivere da tempo formalmente in uno stato di emergenza, proclamato per poter schierare l’esercito in aree civili? Se si combina questo con le ronde, con quello che è accaduto all’Aquila, con la vicenda dei rom, se ne possono trarre conseguenze inquietanti. Non dico che domani Berlusconi proclamerà l’emergenza nazionale e che vi risveglierete in uno stato di polizia, no: in un certo modo, Berlusconi sta portando a compimento quel che ha fatto Bush negli Stati Uniti. Non avremo il caro vecchio stato d’emergenza – discorsi alla nazione, coprifuochi eccetera – la vita andrà avanti normalmente, con le sue permissività, i suoi piaceri, i suoi sogni, ma sotto l’ombra di misure eccezionali, impiegate, si potrebbe dire, proprio per proteggere la cosiddetta «libertà», il piacere. È una sorta di autoritarismo permissivo, che ha per formula «più divertimento e più misure straordinarie»: potrebbe essere il nostro futuro. Dovremmo esserne consapevoli, ed è certamente cruciale leggere tutta la Berlusconi-commedia su questo sfondo di misure graduali da stato di emergenza. Ma ripeto ancora: non bisogna pensare che la causa di tutto ciò sia Berlusconi. Se lo fosse la soluzione sarebbe relativamente semplice: basterebbe vincere le prossime elezioni. Il problema è più profondo.

Quest’idea di «autoritarismo permissivo» fa pensare al modo in cui, in una delle sue lezioni, Foucault declinò l’esercizio della «sovranità grottesca». Soprattutto in periodi di decadenza, il potere acquista un aspetto di terrificante comicità. Foucault usò la parola «ubuismo», dall’Ubu roi. L’uso che Berlusconi fa del potere crede sia in qualche modo connesso a questa idea?
Già da molto tempo nella letteratura e nel cinema troviamo quest’idea di «ubuizzazione» del potere. Vi sono elementi di ubuizzazione nel leader nordcoreano Kim Jong-il, per esempio, ma con una differenza fondamentale: Kim è Ubu roi per noi, ma non per se stesso. Non puoi ridere di lui, laggiù. Più vicino a noi, elementi di questo tipo c’erano anche in Reagan e Bush: anch’essi, come più tardi Berlusconi, giocavano ironicamente con la loro stessa stupidità, prendendosi lievemente in giro. Berlusconi non ha inventato nulla, ha solo spinto le cose alle estreme conseguenze: ma questa ubuizzazione era già in atto, ed è il segno di un profondo cambiamento nelle dinamiche simboliche del potere.

E uno dei certificati di nascita è stato prodotto negli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti, questo cambiamento si è avviato dopo Richard Nixon. Oggi verrebbe quasi voglia di dire che Nixon sia stato un grande Presidente. Certo, era corrotto. Ma se si misura il grado di essere di sinistra sulla semplice base di quanto lo Stato investe nell’istruzione, la salute, il welfare, allora Nixon è stato il Presidente più di sinistra degli Stati Uniti. Ha normalizzato i rapporti con la Cina, cambiando la geopolitica mondiale. Al riguardo mi sento di sposare una teoria leggermente paranoica: forse la vera ragione per cui cadde non fu ilWatergate in sé, ma la volontà dell’élite di farlo fuori, probabilmente per la «pacificazione» avviata con il grande paese comunista. In ogni caso, ilWatergate fu una fine adeguata per l’ultimo grande Presidente edipico e tragico della storia americana. La sua caduta fu una vera tragedia, la sua dignità venne distrutta. Era ancora una figura di «nobile Presidente» che cade. (Anche a Carter è accaduto qualcosa di analogo, ma la sua fine è stata meno tragica). Con Reagan si inaugura l’ubuizzazione, Reagan è il primo Ubu roi. Ma Berlusconi è andato più lontano: è il leader che, per così dire, si prende gioco di se stesso. Per questo, compito dell’opposizione dev’essere non tanto prendersi classicamente gioco del leader – come avveniva, per esempio, con le barzellette durante lo stalinismo – ma proprio ignorare questo aspetto, far capire che c’è poco da scherzare, che accadono cose gravi.

Questa serietà minacciosa, alla quale lei fa riferimento, non può essere però separata dal lato diciamo farsesco, greve e, perfino in un certo senso, gratuito. Gratuito, al punto, da apparirci come un fraintendimento della libertà. In fondo, tra coloro che plaudono al berlusconismo ci sono quelli che dicono: evviva, lui c’ha liberati dai lacci delle regole istituzionali e dall’eccesso di Stato.
Sono certo che Berlusconi ne sarebbe disgustato: ma uno come lui, con i suoi aspetti farseschi e ubuizzati, può diventare Presidente solo dopo la ribellione antiautoritaria del ’68 – il che la dice lunga sui limiti del ’68. Quali erano i tre grandi obiettivi di quella ribellione? L’alienazione sul posto di lavoro, la famiglia e la scuola viste come strumento dell’oppressione borghese. Siamo o no consapevoli dell’abilità con cui il capitalismo contemporaneo ha integrato in sé questi aspetti di ribellione, e quanto esso sia il vero erede del ’68? Quanto alle industrie, oggi non facciamo più ricorso al fordismo, e se ne abbiamo bisogno lo esternalizziamo in Cina o in Indonesia: oggi si parla di «produzione postmoderna», di «progettualità dinamiche», di «gruppi di lavoro interattivi». Persino l’università non è più il sacrario della conoscenza organizzata dallo Stato oppressivo, ma è decentralizzata e privatizzata, secondo l’idea dell’ «educazione permanente»: si segue un corso di qua e uno di là, tutto è finalizzato a scopi pratici. O si pensi alla sessualità: ma a chi importa della famiglia, oggi, Berlusconi per primo? Lo si fa in giro un po’ come capita o come si può. Insomma, le richieste del ’68 sono state esaudite, e il risultato è molto peggio di quel che c’era prima.

E questo concerne anche il potere nella sua massima espressione?
Anche questa «ubuizzazione del potere» fa in qualche modo parte del riassorbimento del ’68 nel sistema. Una delle tendenze più tipiche del ’68 francese era la messa in ridicolo del potere; e non è un caso che proprio in Francia Coluche, il celebre comico, annunciò nel 1980 di volersi candidare alla presidenza. La sua propaganda si basava sulla continua ridicolizzazione di se stesso: teneva discorsi pseudoelettorali sulla tazza del gabinetto, e alla fine scaricava lo sciacquone. A un certo punto, prima che si ritirasse (secondo alcuni costretto da Mitterand, e di mezzo ci fu anche la misteriosa morte di un collaboratore), i sondaggi gli attribuivano il 16%. Anche Felix Guattari lo sosteneva, ci vedeva una forma di sovversione. Ma si sbagliava. Oggi abbiamo Coluche al potere: è Berlusconi, e questo è un aspetto abbastanza enigmatico di quella che potremmo definire la figura postmoderna del capo politico; il potere può oggi funzionare senza dignità e serietà, senza i regalia dell’autorità. In termini lacaniani, potremmo parlare di un’eclissi del significante padrone (signifiant maître). Lacan parla di un’opposizione fra conoscenza e significante-padrone: l’autorità non può basarsi solo sulla conoscenza degli esperti, ma deve presentare una caratteristica aggiuntiva che identifichi qualcuno come capo. Se si toglie il tradizionale carisma fatto di dignità, bisogna trovare un sostituto, e uno dei sostituti pare oggi essere una comicità alla Ubu. Il potere di Berlusconi oggi pare fatto di (presunta) competenza tecnocratica e di comicità.

Il riferimento al corpo del comico e alle sue volute degradazioni, innesca una riflessione sull’ossessione berlusconiana per il proprio corpo, sulla sua dichiarata volontà di sopravvivenza, o meglio ancora: desiderio di sconfiggere la morte. Non credo sia solo paura di invecchiare, ma necessità di eternarsi ancora in vita. Lei come giudica questo atteggiamento?
Faccio spontaneamente qualche associazione. La prima è che Berlusconi costituisce per certi versi una reviviscenza del mito medioevale, presente nel ciclo arturiano, del Re Pescatore, o Re Ferito, alla cui menomazione fisica corrisponde la decadenza e la desertificazione del suo paese, la Terra desolata. Il re deve guarire perché il paese possa prosperare di nuovo. Oltre al semplice elemento della vanità personale, è come se Berlusconi cercasse di vendere, in modo comicamente distorto, il mito arcaico che la salute del paese dipenda dalla salute del capo. È questa l’ironia di Berlusconi: continui riferimenti ai regalia e, al contempo, capacità di sollecitare un’identificazione basata sulla sua somiglianza, non sulla differenza dall’uomo comune.

È la caratteristica del populismo. Ma in che consiste questa identificazione?
Partiamo da un luogo comune. Non dico che gli italiani siano così, ma esiste senz’altro un cliché che li dipinge come piccoli frodatori che stordiscono le mogli di bugie, e vengono rappresentati come donnaioli ed evasori del fisco. Berlusconi sembra realizzare in proporzioni amplificate ciò che gli italiani sognerebbero di fare – un po’ di affari loschi qui e là, una relazione diciamo molto personale con le tasse. Anche la sua propensione ai commenti e alle battute sessuali, le sue gaffe, le sue barzellette innalzate a miseri apologhi, proiettano una trama conoscibile. È come se imitasse l’ordinarietà di voi italiani. E questo è ancora un altro aspetto dell’ubuizzazione.

È una strategia intermente voluta?
Mi chiedo se lo faccia apposta, e in quale misura. Alcuni politici sloveni che lo hanno incontrato mi hanno detto che anche in privato è così, che gli piacciono le barzellette sporche, che ama tirare tardi. Ma anche se è davvero così, non è impossibile che consapevolmente lasci questa sua natura esprimersi il più possibile. Credo ci sia in ciò un aspetto manipolatorio: Berlusconi «c’è e ci fa», come direste voi. Qualcosa di diverso ma analogo accade con Putin, che rappresenta un altro versante del potere postpolitico e neoautoritario (e non è un caso che i due siano amici). Putin gioca consapevolmente con un altro aspetto, quello del suo brutale autoritarismo. Quando per esempio un giornalista occidentale gli rivolse una provocazione filo-ocecena, per tutta risposta Putin gli chiese: «Sei circonciso? In Russia abbiamo degli ottimi dottori, possiamo circonciderti e forse anche qualcosina di più». Ho chiesto ad alcuni miei amici russi ben informati se queste siano «esplosioni» incontrollate di una vera natura tenuta repressa; mi hanno risposto che no, che sono per lo più previste e progettate. Insomma, il capitalismo postdemocratico sta trovando in Occidente le sue diverse forme: per ora italiana e russa. Qui comunque non abbiamo bisogno di un autoritarismo «confuciano», di leader saggi e sapienti, come a Singapore. Non fa per noi, stiamo inventando i nostri modi e ne sapremo di più tra qualche anno.

È interessante quel riferimento al mito medioevale del Re Pescatore. A questo proposito veniva in mente il film di Terry Gilliam sulla leggenda. Glielo ricordo perché lei ha spesso usato il cinema come metafora in grado di spiegare i meccanismi nascosti della realtà.
È un invito a verificare se sono possibili altre associazioni. Sempre restando ai miti medioevali, un’altra associazione si può fare con l’ultimo Beowulf cinematografico, quello interpretato da Ray Winstone. Ecco,Winstone è davvero una figura berlusconiana. All’inizio, nel film, anche lui fa dei commenti ironici su se stesso. E poi il film ha qualcos’altro, qualcosa di unico dal punto di vista tecnico. Hanno combinato riprese d’azione e cartoni animati. Ci sono degli attori in carne e ossa, ma la loro immagine è modificata mediante disegni, così che appaiono, fra le altre cose, più giovani. Il Beowulf cinematografico è una sorta di chirurgia plastica vivente, e così in qualche misura è Berlusconi. Pensiamo ancora a uno dei grandi miti gotici del nostro tempo, i giochi di carte per bambini. In particolare Yu-Gi-Oh!, forse il più diffuso in tutto il mondo. Mio figlio non fa altro che giocare con queste carte (e mi ha costretto a comprare su eBay la combinazione di carte più potente, nota come Exodia, per trecento dollari). Ecco, la cosa straordinaria di questi giochi è che non presentano un unico universo di regole. Quasi ogni singola carta ha le proprie. Per me sono un mistero: su una carta può esserci scritto che se ne hai un’altra succede un’altra cosa ancora, e così via. È un sistema di regole completamente opaco, sterminato; solo dei bambini piccoli, con la loro memoria eccellente, possono ricordarle tutte. Questo assomiglia moltissimo al modo in cui funziona il potere oggi. Gli antichi e nobili sistemi di potere sono fondati su testi sacri: costituzioni, regole di base. Oggi ci stiamo muovendo da un grande insieme di regole fondamentali e stabili a queste improvvisazioni: si tendono a creare stati temporanei di emergenza con regolamenti transeunti, variabili. Già Foucault e Deleuze identificarono questo passaggio dalle leggi ai regolamenti: regole inventate per, o applicate a, situazioni specifiche.

Non dimentichiamo però che uno dei contenziosi più aspri riguarda le leggi ad personam.

Si potrebbe dire che non c’è niente di più generale del personale e che il corpo del Re va salvato a ogni costo, contro ogni decenza e a prescindere da ciò che la democrazia richiederebbe.

È il lato oscuro e mitologico del potere di quest’uomo che si avvale di una clownerie unica.
Un mio sogno è vedere interagire Berlusconi e Benigni al suo peggio (in senso buono): il mio problema con Benigni è che negli ultimi film è diventato troppo sentimentale (al Pinocchio, ma anche al finale della Vita è bella, preferisco il Benigni, per esempio, di Taxisti di notte di Jarmush). Ecco, sarebbe bello vederli insieme, questi due grandi clown. Ma non sono sicuro che Benigni sarebbe altrettanto divertente, con Berlusconi. Benigni è un clown classico, il cui gioco è meno opaco e più aperto, Benigni si prende in giro e fa il pagliaccio in un modo che presuppone una dignità. E questo è il motivo per cui amava tanto Berlinguer. Si può non essere d’accordo con Berlinguer, ma è senz’altro stato uno degli ultimi politici italiani a incarnare un’autorità sommamente dignitosa – il silenzio della dignità, si direbbe. La mia impressione è che Benigni funziona meglio in contrappunto a un’espressione dignitosa del potere. Con Berlusconi potrebbe essere un numero molto, molto meno divertente.

Anche perché Berlusconi non dividerebbe mai la scena con qualcun’altro. Soprattutto se più bravo di lui. Del resto egli è certo di essere un grande seduttore di donne e di folle. In che misura egli incarna la seduzione del potere?
Ogni potere esercita una seduzione. Persino gli esperti tecnocrati tentano di sedurre attraverso i loro expertise: quando gli economisti espongono le loro posizioni dispiegando terminologie specialistiche, contano sul fatto che non li comprenderemo, e che proprio per questo ci sedurranno. Certo, Berlusconi seduce, ma non con i mezzi tradizionali della brutalità né della dignità. Anche se l’ubuizzazione comincia con Reagan, questi presentava ancora alcuni aspetti tradizionali di brutalità: si pensi a quando, in risposta a un grande sciopero dei controllori di volo, si rese rapidamente conto che nell’esercito aveva abbastanza uomini per sostituirli, e li licenziò tutti e diecimila. Berlusconi seduce anche lui, ma in una maniera originale. Per certi versi rappresenta un ritorno all’Urvater freudiano: si ricorderà che secondo il Freud di Totem e tabù il padre primordiale aveva il diritto di possedere fisicamente ogni donna della tribù. Ritengo che Berlusconi giochi con questa forma di seduzione, e penso che questo segnali un nuovo funzionamento del potere in generale. Non dovremmo sottovalutarlo o ridurlo troppo facilmente a un fenomeno tutto italiano. Molti analisti politici oggi gettano facilmente il discredito con asserzioni sostanzialmente razziste: «Ah questi italiani, non ci si può far nulla!». Non è così.

E com’è?
Si pensi a Obama. Anche lui si è avvalso di questo cambiamento, in modi molto diversi. Anche lui non recita più la parte del nobile e dignitoso capo di Stato. La prima reazione di molti alla candidatura di Obama fu: è un bravo ragazzo, ma lo prenderanno sul serio? Ha abbastanza autorevolezza? Nel conflitto fra Obama e McCain, era questi a giocare il ruolo dell’autorità classica. Se dai dibattiti politici togliamo la fuffa, il punto base di McCain era: «Io sono un capo, io ho l’autorità, Obama no». Ma oggi l’essere capi è dissociato dall’essere autorevoli e austeri; e Obama ha potuto vincere. Certo, si può fare un’analisi psicologica di Berlusconi, ma non penso che questo sia interessante. È preferibile domandarsi a quali bisogni sociali, a volte arcaici, la figura di Berlusconi fa riferimento. Con quali bisogni la figura di Berlusconi entra in risonanza? In definitiva, io sono un collettivista vecchio stile. Gli individui non sono interessanti: odio la psicologia individuale. Mi interessano i bisogni collettivi che essi rispecchiano.

Lei sostiene che ciò che accade in Italia succede anche altrove. Ma in quale altro grande paese il suo avere a che fare con escort, ragazze giovanissime e persino minorenni non avrebbe portato a dimissioni immediate? Questo non è accaduto in Italia. Perché?

Non credo che in tutti gli altri paesi il risultato sarebbe stato questo. In altri paesi succederebbe forse qualcosa di simile a quanto sarebbe accaduto anche negli Stati Uniti e in Italia decenni fa: si sarebbe realizzato il patto generale di non parlarne. Mentre adesso assistiamo, sotto questo aspetto, a un’americanizzazione dell’Italia (e progressivamente dell’Europa): la vita privata dei leader diviene un fatto d’interesse pubblico. Anche in America, del resto, il fenomeno è recente. Pensiamo a Kennedy: lo sappiamo tutti, non faceva altro che sedurre donne, ma la stampa lo ignorava, non solo e non tanto perché i media fossero oggetto di repressione, ma perché faceva parte del patto sociale. Pensiamo ancora alla Francia e a Mitterrand: tutti sapevano che aveva moltissime amanti e molti figli illegittimi. Un liceo del sesto arrondissement, vicino il Jardin du Luxembourg, veniva chiamato il liceo dei figli illegittimi di Mitterrand. Ma nessuno ne scriveva, anche in questo caso. C’era un codice di discrezione che imponeva di non farlo. Il ghiaccio venne rotto negli Stati Uniti con Clinton: e da allora si può fare ogni cosa, si può indagare sulla vita privata dei personaggi pubblici. Voi siete una grande nazione, non abboccate a queste stronzate nordeuropee che vi trattano come una razza di inguaribili fanfaroni.

Una nazione si giudica anche da chi la guida.
D’accordo, ma la questione è più generale e travalica i vostri confini, fa parte della «snobilitazione» del potere. Qualcosa è cambiato a un livello molto più profondo, nell’economia simbolica della relazione della collettività con il potere. E, lo ripeto, non credo che in tutti gli altri paesi, comunque, un Berlusconi rassegnerebbe le dimissioni. Lo stesso Clinton non si dimise. E anche in Francia oggi non sarebbe certo detto. Un po’ di tempo fa, mentre visitava una fiera agricola, a un uomo che ha rifiutato di dargli la mano, Sarkozy – che non sapeva di essere registrato – ha risposto: «Casse-toi, pauvre con», un’espressione molto volgare e insultante. Il video ha fatto il giro del mondo, ma non è successo nulla, anzi forse l’episodio lo ha aiutato in popolarità. Comunque, certo, in molti altri paesi non è ancora possibile non dimettersi dopo uno scandalo del genere: ma voi siete il futuro. Diventerà sempre più così, c’è da temere. Tuttavia, scoperto il «vizietto» di Berlusconi, lo si potrebbe utilizzare più discretamente per farlo cadere, costringendolo a dimettersi ma senza mettere al centro dell’attenzione pubblica la sua vita sessuale. Questo è la fine dell’autorità moderna per come la conosciamo.

Nel suo articolo sulla «London Review of Books», lei ha sostenuto che il modello di Berlusconi è esportabile. Che cosa glielo fa ritenere?

Berlusconi è l’epitome dell’«ubuizzazione del potere», della perdita della dignità classica del leader. E penso che questo sia un processo universale. Potrà avvenire in modi diversi a seconda dei paesi, ma è parte di un processo globale.

Cosa pensa delle ripetute minacce di Berlusconi alla stampa?

Io penso sia in primo luogo ipocrisia. Berlusconi fa il doppio gioco, in questo caso: nessuno è così stupido – e lo stesso Berlusconi non può essere totalmente stupido – da pensare che il modo in cui lui si comporta non possa provocare questo genere di domande. Non può certo dire, in nessun caso, di essersi comportato come un onorevole e dignitoso uomo di Stato! D’altra parte, molte persone comuni, pensando a un settantaduenne che se la spassa con tante ragazze, potrebbero ammirarlo. Certo, io sono disgustato dal comportamento di Berlusconi, mi sento completamente solidale con «la Repubblica» e aderisco senz’altro e con convinzione all’appello che qualche tempo fa fu fatto da tre giuristi. Tuttavia, temo che Berlusconi prosperi proprio su questo. I politici più abili nella manipolazione lo hanno sempre saputo: nulla ti aiuta di più di un certo genere di critica. Berlusconi oggi si può anche presentare in questo modo: sono un grande seduttore, quei professorucoli impotenti della sinistra mi invidiano a morte. Qui giochiamo con il fuoco.

Lei che farebbe?
Se io fossi un giornalista antiberlusconiano, cosa che certamente sarei, non mi concentrerei sulla sua vita sessuale né su altri temi che possono generare la pur minima identificazione: l’evasione fiscale, per esempio (o l’impotenza: anche questo può generare identificazione, visto che metà degli uomini hanno problemi del genere). Persino concentrarsi sulla
corruzione funziona solo con i casi estremi: una corruzione «ordinaria» può esser vista come una forma estremizzata di piccoli comportamenti di saper vivere quotidiano. Bisogna forse presentare le decisioni politiche di Berlusconi come direttamente legate ai loro effetti gravemente negativi. Dire: Berlusconi ha fatto questo, e di conseguenza queste persone, con nomi e cognomi e storie, sono morte, queste altre hanno perso il lavoro. Se gli elettori rimangono indifferenti davanti a questo, beh, siamo fottuti. E Berlusconi, certo, sta attivamente cercando di creare una simile indifferenza. Ma dev’esserci un modo di reinventare le domande centrali della politica, riformulando le questioni politiche ed economiche in termini più personali, anche chiaramente manipolatori, se ce n’è bisogno. Sarebbe un bene ripensare la strategia per combattere Berlusconi: troppe volte lo abbiamo aiutato.
Con la collaborazione di Vincenzo Ostuni

Da Epifani alla Camusso: anatomia di un sindacato

Gli anni della spoliazione

Finisce l’era di Guglielmo Epifani alla CGIL e si apre quella di Susanna Camusso che, da un paio d’anni, è stata quasi ospite fissa dei Talk Show dove si è distinta per una esposizione soft delle sue ragioni e per l’accortezza nell’evitare lo scontro o le situazioni sgradevoli. La ribalta televisiva le ha permesso di distanziarsi enormemente da tutti i possibili concorrenti.
E’ paradossale ma è così : il lascito di Epifani è di una CGIL più forte ma abitata da milioni di lavoratori e pensionati più poveri, socialmente in difficoltà, indeboliti dal continuo ossessivo salasso di diritti. Come si spiega il rafforzamento della organizzazione e l’impoverimento dei suoi iscritti? Epifani è stato scaltro, molto scaltro, nell’oggettivazione delle sconfitte, nel farle derivare o da un cambiamento naturale ed irresistibile della situazione (globalizzazione, crisi industriale..) oppure da una condizione socio-politica sfavorevole (governo di centro-destra) e mai da responsabilità soggettive della CGIL . Il dogma dell’unità sindacale è servito allo scopo. . Il mito della CGIL di Di Vittorio nel cuore dei lavoratori ha fatto il resto. I lavoratori non vogliono ancora credere o riconoscere che la CGIL possa fare qualcosa che non sia a loro favore. Temono di dover constatare di essere soli, di non avere nessuno che li difenda.
In effetti, l’impoverimento e la perdita di peso dei lavoratori è legata alla vittoria del centro destra ma anche alla conversione al liberismo del PD e della stessa CGIL. In qualche modo la CGIL è stata la “dote” che il PD ha portato e porta alla Confindustria per il sostegno che questa vorrà accordargli nel dopo Berlusconi. C’è stata molto sincronia tra PD e CGIL nella inesorabile opera di demolizione dei presidi fondamentali del diritto al lavoro ed al welfare. Gli accordi con il governo Prodi sul precariato e sulle pensioni poi ancora ribaditi con questo governo hanno ridotto di molto i diritti e svuotato la pensione. La riduzione di trecentomila dipendenti dalla pubblica amministrazione non è stata contrastata dal PD e neppure dalla CGIL in nome della efficienza, della produttività e della modernizzazione dell’apparato pubblico. Il licenziamento di duecentomila precari dalla scuola non ha turbato molto né Epifani né Bersani. Certo, gli scioperi ci sono stati ma non sono mai diventati né mai hanno assunto il carattere di una vera difesa della scuola pubblica come é accaduto ed accade in Francia. Il PD ha votato contro il collegato lavoro che riduce a malpartito lo Statuto dei diritti e privatizza la giustizia del lavoro. Ma non ha fatto le barricate che Bersani promette contro il lodo Alfano! La CGIL ha lasciato fare, ha commentato negativamente il testo di legge, ma in due anni di sua permanenza in Parlamento non ha mai fatto realmente nulla di significativoo e di utile per fermarne l’approvazione nonostante i giudizi scandalizzati dei giuslavoristi italiani! Il PD vuole che
la CGIL ritorni all’ovile dopo l’accordo separato Cisl ed UIL sul contratto di lavoro e sulle deroghe. In effetti, la CGIL non ha firmato ma ha pretesto di assistere alla firma (sic!). Ha fatto da palo e poi ha fatto filtrare l’accordo separato attraverso le categorie. Dopo il 16 ottobre si è affrettata a fare l’accordo di Genova e poi a firmare un Patto Sociale non solo con Confindustria ma anche con il Governo (se questo non tira le cuoia prima del tempo).
Il regno di Epifani ha registrato l’avvento della legge Biagi e poi la sua estensione praticamente a tutti i nuovi assunti. Milioni di giovani lavoratori sono stati precarizzati e ridotti in miseria da paghe inferiori ai minimi salariali anche del quaranta per cento. La legge Biagi è applicata all’interno della CGIL a migliaia di suoi dipendenti del cosidetto “apparato tecnico”. L’ossatura organizzativa della CGIL e delle sue categorie. Conosco casi di giovani magari con due lauree utilizzati dalla CGIL con 700 euro al mese in incarichi di delicata responsabilità esecutiva. Mai assunti direttamente dalla CGIL ma da compiacenti altri organismi che poi li distaccano. Questa realtà dei salari dei nuovi assunti ha calmierato al ribasso tutta la massa salariale italiana come riconosce la stessa CGIL . Nel decennio 2000/2010 si calcola una perdita di circa 5500 euro sui salari anni, una perdita che ha reso difficile la vita delle famiglie e depresso l’economia italiana.
I lavoratori hanno perso molti dei loro diritti e sono tra i più poveri dell’OCSE. In quanto a diritti oramai siamo in fondo a tutte le classifiche, credo che il diritto del lavoro serbo o
polacco sia già migliore del nostro. A questo bisogna aggiungere il peggioramento dei servizi esterni ed il loro rincaro dovuto in grande parte alle privatizzazioni alle quali la CGIL non si è opposta perchè sostenute anche dal PD. Il grande sindacato che fu di Di Vittorio ha assistito quasi inerte alla riduzione in schiavitù di milioni di immigrati specialmente nelle campagne dove le loro condizioni di vita sono state e sono davvero disumane.
Non ho dubbi che la spoliazione continuerà e si intensificherà con Susanna Camusso. Il diritto di sciopero è nel mirino di personaggi come Bonanni ed Ichino che ne reclamano una regolamentazione che di fatto lo abolisce come diritto individuale. Il fatto che gli scioperi generali sono sostituiti da manifestazioni nazionali che si svolgono solo di sabato
(anche quella recente della Fiom) fa temere di una sorta di tacito accordo di autolimitazione. Continuerà il processo di demolizione del contratto collettivo di lavoro e non a favore di contratti di area europea che pure sarebbero indispensabili per fronteggiare le delocalizzazioni ma di accordi personali o locali tipo Pomigliano. Arriveranno anche sorprese sgradevoli dall’INPS e dall’INAIL per l’uso che farà il governo delle deleghe ottenute con la 1441(collegato lavoro). Cambieranno natura giuridica ed i privati aumenteranno il loro peso.
Naturalmente, negli anni di Epifani la CGIL si è gradualmente ma definitivamente “liberata” della sua cultura pacifista ed antiimperialista. Non partecipa da un pezzo, come il PD, alle manifestazioni per la pace tranne quella del tutto anodina della marcia di Assisi. Ha ridotto il suo impegno a favore della Palestina al sostegno di Abu Mazen ma per il resto è diventata assai filoisraeliana. Si è distanziata di molto dalla esperienza dei no global e dei centri sociali che sono ignorati oppure osservati con diffidenza. E’ diventata molto filooccidentale. Sostiene la campagna per la liberazione di Sakineh ma non ha speso una parola per l’uccisione di Teresa Lewis e la prossima esecuzione di altre cinquantadue donne negli USA.
La CGIL non ha alcun rapporto con il sindacalismo di base che pur ha natura profondamente classista e di sinistra ed è costituito da dirigenti che provengono in gran parte dal suo stesso seno.
Oramai è stretta in un reticolo di accordi e di interessi con Cisl UIl ed associazioni padronali. La politica anticlassista della sussidiarietà la sta ponendo gradualmente ma inesorabilmente in una sfera in cui i suoi interessi non coincidono più con quelli dei suoi iscritti.
Pietro Ancona

Ma l’Italia non è un paese per giovani

Esce “La generazione tradita” di Pier Luigi Celli. Riprende le riflessioni della lettera di un anno fa a “Repubblica”, intitolata “Figlio mio lascia questo paese”.
Tre su dieci sono senza lavoro. E per gli altri vige la religione del precariato.

Partiti e sindacati non li rappresentano. Le imprese predicano bene ma razzolano malissimo.

«Forever young», cantavano Bob Dylan nel ’74 e gli Alphaville nell’84, in quello che suonava come un inno romantico alle sfide in campo aperto, alla voglia di cambiare il mondo, alla capacità di sognare e di costruire il futuro. «Non è un paese per giovani», cantiamo noi oggi, in questa Italia costretta a rideclinare così il titolo del magnifico romanzo di Cormac McCarthy. E abituata a ingabbiare i giovani dentro uno schema collaudato ma corrivo. Da una parte i «bamboccioni», inchiodati a casa con mamma e papà per non assumersi una responsabilità. Dall’altra parte gli «invisibili», condannati a marcire nel precariato a vita per non morire di fame. Nella terra di mezzo, tutti gli altri. Pochi «fortunati», figli di potenti che scalano per diritto acquisito la piramide sociale. Tanti «sfigati», figli di nessuno che non hanno altra via che scappare all’estero, a cercare altrove la fortuna che gli è negata qui.

Lo schema è rozzo, e difficile da rompere. Se non al prezzo di destare un pò di scandalo. Pier Luigi Celli ci ha provato giusto un anno fa. Era la fine di novembre, e su questo giornale pubblicava una «lettera aperta a suo figlio» nella quale, dopo aver descritto lo sfascio etico e politico, morale e sociale di questo sciagurato Paese, lo invitava con la morte nel cuore a fare i bagagli, e ad andarsene dall’Italia. Perché «dammi retta – scriveva l’ex direttore generale della Rai, ora direttore generale della Luiss – questo è un Paese che non ti merita». Non l’avesse mai scritto. Si scatenò un putiferio. Anche qui, secondo uno schema ancora una volta collaudato ma corrivo. Da una parte i «critici del partito preso» (fondamentalmente, il Pdl): «vergognati a suggerire la fuga», l’Italia è il migliore dei mondi possibili, è la terra delle grandi opportunità. Dall’altra parte gli «a-critici della causa persa»: ma di che parla Celli, proprio lui che è stato sempre nella stanza dei bottoni e che in fondo appartiene pur sempre a una «casta»? Nella terra di mezzo, quasi nessuno che si sia sforzato di cogliere il nodo vero della questione, sia pure travestita da provocazione: che ne sarà dei nostri giovani, che finiti gli studi si affacciano ai bordi della vita adulta senza soldi, senza risorse e senza speranze, ma non sono affatto gli uomini più felici del mondo, come scriveva l’Henry Miller di Tropico del cancro?

Forse ancora scottato da quell¿azzardo, Celli torna sul luogo del delitto con un bel libro, che nel titolo dice già molto, se non tutto. La generazione tradita (Mondadori, pagg. 144, euro 17) è prima di tutto la storia di un fallimento, generale e (pro-quota) anche personale. Il fallimento di un establishment politico e cattedratico, economico e tecnocratico (al quale anche Celli dichiara onestamente di appartenere, senza cercare alibi o scuse) che non è riuscito a costruire un sistema nel quale, secondo il titolo felice di un altro buon libro scritto qualche anno fa da Nicola Rossi, si dà «meno ai padri, più ai figli». E che ha invece assemblato, e alla fine consolidato, una struttura sociale che vede i padri contro i figli, «gli adulti contro i giovani». Non è una novità. La denunciano tutti, e non da oggi, le istituzioni più prestigiose, le classi dirigenti più autorevoli. Dalla Banca d’Italia alla Confindustria, dall’Istat al Censis.

Ma leggere i numeri che Celli rimette in fila fa sempre impressione. Oggi circa un terzo della popolazione giovanile compresa tra i 15 e i 29 anni è senza lavoro, con un aumento del 4,9% sul 2009. Nel 2009 le assunzioni a tempo indeterminato sono calate del 30%, mentre le poche assunzioni fatte sono quasi tutte regolate da contratti temporanei: stage, tirocini, inserimenti a progetto, finte partite Iva. È il disperato «culto» moderno di San Precario: esige che un lavoro qualsiasi, malpagato e senza uno straccio di garanzia, sia comunque meglio di nessun lavoro. La beffa, oltre al danno, è che neanche questa nuova «religione» del mercato giuslavoristica salva l’anima dei suoi «cultori» involontari: il 90% dei posti bruciati da questa crisi è infatti lavoro a tempo determinato. Risultato: il 60% dei 2 milioni e mezzo di disoccupati italiani ha oggi meno di 34 anni.

Eccola, la «generazione tradita». Gli abbiamo «intossicato il futuro», come dice Zygmunt Bauman. E quello che è peggio, denuncia Celli, dopo avergli rubato la speranza gli abbiamo anche tolto la voce. Questo «popolo», oggi, è forse l’unico a non avere una rappresentanza. Né sociale, né tanto meno politica. Il sindacato pensa ai già garantiti e ai pensionati, lo zoccolo duro della sua costituency. Le imprese predicano bene ma razzolano malissimo, perché hanno perso «l’anima» e al dunque preferiscono dissestare i loro criteri di approvvigionamento delle risorse, rendendo opachi i modelli di impiego e di remunerazione adottati, e riducendo l’analisi delle condotte umane secondo «i meccanismi di adesione formale» a un modello di business o «di devianza».

Resta il Palazzo. Cioè la politica. Della «generazione tradita» si occupa o con le consuete, agghiaccianti generalizzazioni, disquisendo a sproposito di ragazzi neo-diplomati e neo-lauerati di cui non conosce nulla, perso com’è nell’«usura del linguaggio» imposta dalla modernità. Oppure non si occupa affatto, preferendo il silenzio assordante tipico delle nomenklature che «non si sporcano le mani». I giovani sono tutt’al più materia da «speculazione» propagandistica, meglio se nel rituale convegno di studio o nella ricorrente campagna elettorale. In questi casi il mantra, che accomuna falsi liberali e finti riformisti, è sempre il solito: «meritocrazia»! «La logica del merito – scrive Celli – gode di un consenso persino imbarazzante, talmente generalizzato da divenire una sorta di giaculatoria stucchevole. Ne parlano i politici, che si guardano bene dall’applicarlo nella scelta di collaboratori e di futuri colleghi. Ne fa uso abbondante la logica parlata della pratica manageriale, salvo poi convenire che è forse più utile selezionare sulla base delle fedeltà esibite di quanto non serva puntare su competenza e affidabilità».

Ma questo è tutto. Non si va oltre, a creare le reali condizioni di parità di partenza per i giovani che cercano di salire sull’ascensore sociale. La morale di Celli non è disperante. Ci sarebbe un enorme lavoro, e un¿enorme opportunità, per chi volesse affrontare il problema con umiltà e con coraggio. Ma al dunque, alla fine di queste 134 pagine belle ed intense, resta la sensazione frustrante di una battaglia purtroppo già persa, insieme alla generazione che, per una accanita crudeltà del destino, non ha potuto neanche combatterla. Per i giovani vale la mesta «disperanza» raccontata in un vecchio romanzo di José Donoso. Per gli adulti vale l’amara sentenza pronunciata a suo tempo da Cioran: «Perché ritirarsi e abbandonare la partita, quando restano ancora tante persone da deludere?». Celli non lo dice, ma lo diciamo noi: se ci fosse una sinistra, più audace dei conservatori e meno qualunquista dei rottamatori, forse saprebbe come rispondere.

di Massimo Giannini, la Repubblica, 09/11/2010

Lavoratori della Cgil in lotta contro la Cgil che licenzia

A Roma manifestazione alla direzione nazionale del sindacato dove non vale il normale diritto al lavoro.

Proteste di precari e lavoratori licenziati se vedono tutti i giorni. La notizia, però,diventa clamorosa se le proteste si svolgono di fronte alla sede centrale della Cgil e se hanno come protagonisti proprio i precari e i licenziati del sindacato guidato da Susanna Camusso. È quanto accaduto ieri a Roma.

UNA DELEGAZIONE del comitato dei precari e licenziati dalla Cgil – a distanza di cinque mesi dalle loro proteste nel corso del congresso nazionale Cgil di Rimini, durante il quale si erano incatenati per attirare l’attenzione- ieri mattina, ha manifestato davanti al quartier generale del sindacato in Corso d’Italia, chiedendo di incontrare la Camusso.Il neo-segretario generale era assente,così i manifestanti sono stati ricevuti dal segretario confederale Enrico Panini: “Siamo in presenza di casi molto diversi gli uni dagli altri – ha spiegato Panini – ma la Cgil si attiverà per avviare dei rapporti fra le parti affinché vadano a buon fine”. Le stesse parole che aveva usato a maggio dopo la protesta al congresso nazionale di Rimini.Soltanto sette persone (controllate a vista da quattro poliziottie da due militari), nessun megafono, solo due cartelli con scritto: “Vergogna.Rovinato dalla Cgil di Catania. 13 anni in nero,5 anni dopo licenziato”. A scrivere lo striscione,appoggiato al bagagliaio di un’autosotto la pioggia romana, è stato Giovanni Sapienza,67 anni. Racconta che per 13 anni ha lavorato in nero per la Cgil di Catania: nel1998 è stato assunto dalla società di pulizie Alizzi (poi divenuta Novalux) a cui si rivolgeva l’organizzazione sindacale. Nonostante il cambio di società le mansioni di Sapienza rimasero le stesse: apertura-chiusura della sede Cgil, centralinista, portaborse dei dirigenti sindacali. Dopo altri 5 anni decise di rifiutarelo stipendio in segno di protesta. Il suo vero datore di lavoro era la Cgil, così,Sapienza chiese al sindacato di rispettare isuoi diritti con l’assunzione e con il versamento di tutti i contributi previdenziali per gli anni passati. Cosa fece il sindacato? Cambiarono le serrature d’ingresso della sede dell’organizzazione impedendogli di entrare. Dopo alcuni mesi ricevette la lettera di licenziamento della Novalux.È servito a poco il tentativo di conciliazione presso l’Ufficio provinciale del lavoro: la Cgil non si è mai presentata. L’ultimo tentativo è stato il tribunale.Ma la sentenza, che sarebbe dovuta arrivare lo scorso primo ottobre, è stata posticipata ad aprile2011. Sapienza chiede 263mila euro di risarcimenti:spese legali e 13 anni di contributi nonversati. “Lo sapete cosa mi ha offerto invece la Cgil? – racconta Sapienza – Mille euro a titolo bonario”.

DI STORIE SIMILI a quella di Sapienza cene sono a decine, quelle che ieri si ascoltavano sotto la sede della Cgil erano soltanto un piccolo campione. C’è, per esempio,quella di Barbara Tundis entrata nella Cgil diCetraro nel 2003 con il servizio civile: le èstato proposto di rimanere a lavorare nel sindacato con un contratto part-time, ma che difatto era un tempo pieno. Alla richiesta di maggiori diritti, è stata costretta a firmare una lettera di dimissioni già preparata. Invece Simona Micieli, ex precaria della Cgil calabrese (250 euro al mese, ne erano stati promessi almeno 700) ha fatto causa al sindacato per maltrattamenti.

Come è possibile che dentro un sindacato accadano questo genere di cose? Semplice:ai sindacati – in quanto associazioni non riconosciute,come i partiti politici – non siapplica lo Statuto dei lavoratori. Il famoso articolo 18 dello Statuto considera nullo il licenziamento quando avviene senza giusta causa o giustificato motivo. La mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione,che prescrive una legge per la disciplina dell’attività sindacale, ha sempre permesso alle organizzazioni dei lavoratori – inclusa la Cgil– di operare in deroga, anche all’articolo 18.E quando i dipendenti dei sindacati vogliono protestare per avere tutela dei propri diritti,non sanno bene a chi rivolgersi, visto che inquesto caso i sindacati sono parte del problema e non della soluzione. Anzi, sono proprio la controparte.Non è un problema da poco per Susanna Camusso, che il 3 novembre scorso, al momento dell’elezione a segretario generale della Cgil, ha innalzato il vessillo della legge sulla rappresentanza sindacale, chiesta da anni e sempre stralciata da un Parlamento alle prese con altre urgenze. La Camusso , secondo cui “il futuro deve essere dei giovani edel lavoro”, dovrà ora occuparsi anche di chi deve rappresentare, e tutelare, i suoi dipendenti.

Da Il  Fatto Quotidiano di Gianmaria Pica

Il sindacato moderno? Bilaterale

La sfida del sindacato moderno

Storia Bilaterale

La vita degli enti bilaterali è una lunga storia che secondo alcuni studiosi, getta le sue radici nella seconda metà dell’Ottocento, con la nascita delle Società di Mutuo Soccorso.

Nate come associazioni volontarie con lo scopo di ottimizzare le condizioni dei lavoratori ed accrescerne i diritti, tali società si basavano sulla solidarietà dei loro appartenenti ed erano intimamente legate al territorio in cui nascevano. Esse si fondavano sulla comunione delle forze per il raggiungimento del progresso materiale e morale dei ceti dei lavoratori e maturavano nell’esigenza di affrontare quelle situazioni di sfruttamento a cui le istituzioni politiche sembravano incapaci di mettere fine. Si trattò di un esperimento di protagonismo civile che vide tra i suoi primi protagonisti gli ambienti ecclesiastici, il cui impegno morale di fondo non poteva restare cieco di fronte a problematiche del genere, pur conservando un certo carattere legato più al concetto di elemosina. Non ci interessa in questa sede approfondire tali argomentazioni, ma ci limiteremo a segnalare come da un primitivo paternalismo assistenziale si sia passati nel corso dei secoli alla nascita di un vero e proprio stato sociale, impegnato in interventi pubblici tesi a fornire servizi indifferenziati a garanzia dei cittadini. Le società di mutuo soccorso costituirono una primitiva forma di previdenza collettiva, che offriva ai suoi associati in cambio del pagamento di una quota più o meno irrisoria. In realtà, vi sono delle differenze tra le due esperienze, ma un possibile filo conduttore si può rinvenire nel tentativo di sopperire alle carenze dello Stato per fornire un primitivo apparato di difesa ai lavoratori.

Bilateralismo contro antagonismo

La bilateralità si presenta come una dinamica di evoluzione delle prassi relative al modo di concepire le relazioni industriali, e si attua nel momento in cui si sceglie di superare le eventuali tensioni antagonistiche e di concentrarsi sul livello della condivisione degli interessi. La prerogativa di un tale approccio è il dialogo tra le parti sociali, pur sempre nel quadro di una serie di regole condivise e definite. Condizione necessaria affinché ciò si realizzi è il rispetto del principio della pariteticità, caratteristica propria di quasi tutte le forme bilaterali, in quanto devono essere rispettati l’apporto e la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti.

Gli organismi bilaterali, costituiti da soggetti che sono controparti nel sistema di relazioni industriali, si presentano con una varietà che è direttamente proporzionale alla eterogeneità e complessità dei compiti che devono assolvere.

Cosa fanno oggi gli enti bilaterali?

Al giorno d’oggi, gli enti bilaterali svolgono sul territorio una serie di funzioni: dall’integrazione del reddito nei periodi di sospensione del lavoro a favore dei lavoratori licenziati alla formazione ed aggiornamento professionale per i lavoratori e gli imprenditori; dall’integrazione alle prestazioni economiche spettanti in caso di malattia, infortunio e maternità all’assistenza e sostegno per soddisfare particolari bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie, fino ad arrivare all’assistenza per le vertenze in materia di lavoro. Tali enti hanno una derivazione contrattuale, in quanto sono stati istituiti ed inseriti nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Essi rappresentano uno strumento di attuazione ed amministrazione del contratto collettivo in aree e settori produttivi nei quali la parte datoriale è frammentata ed è soggetta ad un alto tasso di variabilità, con conseguente frammentazione e variabilità della rappresentanza dei lavoratori. Difatti, l’esperienza della bilateralità ha riguardato  per lo più alcuni settori, vale a dire quello dell’edilizia, del commercio, dell’artigianato e del turismo, in cui le rigidità di un’impostazione tradizionale del sindacato si sarebbero fatte sentire.

Bilaterali per legge

Giurdicamente gli enti bilaterali vengono considerati associazioni non riconosciute e in quanto tali disciplinati dal Codice Civile. In realtà possono essere configurati come enti di fatto, dotati di autonomia ed idonei ad essere titolari di rapporti giuridici propri, distinti dai soggetti che ad essi hanno dato vita e da coloro ai quali sono destinati i servizi e le prestazioni che ne costituiscono gli scopi. Tutte la società democratiche presentano una qualche forma di sistema bilaterale, proprio perché la crescita della partecipazione permette la stabilizzazione della democrazia. In questo modo essi diventano uno strumento di politica industriale e provvedono a vigilare sul rispetto della contrattazione categoriale.

Tra progresso e corporativismo

Il fenomeno del bilateralismo nelle relazioni industriali costituisce una delle realtà più attuali del nostro sistema. A tal proposito, alcuni non possono fare a meno di considerare gli enti bilaterali come un modo grazie al quale i sindacati potrebbero recuperare le proprie funzioni, accettando le sfide del postfordismo, mentre per altri essi non sono altro che una riproposizione sotto nuove forme delle corporazioni di lavoratori e imprese istituite durante il regime fascista. La crisi economica, i cambiamenti in atto, si sono ripercossi sul modo di fare sindacato riproponendo l’urgenza di un modello di dialogo partecipato, un modello non più conflittuale e rivendicativo, ma, per l’appunto, partecipativo. I punti di forza della bilateralità concepita in questo senso si riconoscono nella conoscenza del territorio, nel coordinamento tra le forze, nella concertazione sociale ed istituzionale e nella collaborazione tra le parti sociali e gli enti di controllo, seppur nella reciproca autonomia e secondo quello che deve essere il loro ruolo.

Nuovo welfare: sussidiarietà neocorporativa

Il sistema di welfare andrebbe ripensato tenendo conto di una logica partecipativa e solidaristica che preveda il coinvolgimento di soggetti intermedi che si occupino della governance di prestazioni e servizi alle imprese ed ai lavoratori garantendo forme aggiuntive di sostegno e protezione in nome della sussidiarietà. Su un altro versante, la bilateralità viene, invece, vista come una regressione che potrebbe comportare una eccessiva implicazione dei sindacati con il mondo aziendale, fattore che ne corromperebbe la naturale natura universalistica e conflittuale. Inoltre, gli enti bilaterali non riescono a risolvere il problema di tutte quelle categorie che non si sentono rappresentate dal sindacato perché inquadrate in forme contrattuali atipiche ed in settori non tradizionali.

I sindacati confederali hanno manifestato maniere diverse di concepire l’esperienza della bilateralità. Mentre Cisl e Uil tendono a riconoscervi un nuovo modo di fare sindacato in un mercato che si presenta, per sua natura costitutiva, estremamente frammentato, la Cgil ha manifestato alcune perplessità. Una generalizzazione del modello bilaterale avrebbe come effetto l’eliminazione del conflitto e la svalutazione del peso della contrattazione collettiva.

Relazioni industriali: riforma post Pomigliano

I sindacati da interpreti del conflitto sociale e da soggetti di rappresentanza degli interessi collettivi, verrebbero trasformati in semplici erogatori di servizi, privati di qualsiasi autonomia. Tale esperienza andrebbe vissuta come un’opportunità nel contesto di una concezione moderna e pragmatica di relazioni industriali, ma il modello partecipativo non dovrebbe mai escludere il modello conflittuale/contrattuale e ciò perché gli spazi ed i ruoli di gestione che competono agli enti bilaterali dovrebbero restare nettamente distinti da quelli che sono i compiti di rappresentanza e contrattazione che competono alle parti sindacali. Gli enti bilaterali dovrebbero rimanere l’emanazione di una contrattazione a cui non devono sostituirsi, anche per evitare che questo strumento burocratizzi eccessivamente il sindacato.

La bilateralità permette di avvicinare il mondo delle aziende a quello sindacale, ma ciò non dovrebbe avvenire invadendo campi che sono propri di altre funzioni. Difatti, restano aperte tutta una serie di problematiche: l’intercettazione dei nuovi attori del mercato del lavoro, il possibile svuotamento dei diritti universalistici sanciti dallo Statuto dei Lavoratori, l’ambigua connivenza dei sindacati col mondo delle imprese, per citarne solo alcuni. Inoltre, il campo di interesse e di azione degli enti bilaterali si sta estendendo sempre più dalle politiche passive a quelle attive del lavoro in quanto tali enti stanno conquistando spazi sempre nuovi, anche estranei alla loro storia di partenza, adeguandosi alle pieghe del sistema e configurandosi sempre più come possibili protagonisti di politica industriale.