Oggi l’Italia è uno dei paesi più disuguali del mondo.

Quei rami della nostra storia
di Paul Anthony Ginsborg • 06-Nov-10
Si impara nelle scuole italiane e perfino in certe facoltà universitarie: non si scrive mai la storia con i «se». A prima vista può sembrare un consiglio sensato e pragmatico. Ma escludere l’esplorazione delle vie alternative, dei sentieri che la storia avrebbe potuto prendere (senza poi farlo) si rivela quasi subito un condizionamento ingiustificabile, quasi ideologico. Il grande albero della storia ha il suo tronco, maestoso e imponente, di fattualità, cioè di quello che è accaduto. Ma ha anche i suoi rami di contro-fattualità, cioè di quello che avrebbe potuto accadere. Nella costruzione di una storia nazionale, i rami hanno un’importanza quasi uguale al tronco. Sono le spie di un’altra storia, non quella predominante ma quella possibile, che offre spesso gli spunti più suggestivi per le future generazioni.

È con questa chiave che vorrei esaminare due temi di grande importanza nella storia d’Italia. Il primo è l’autogoverno come processo di educazione e presa di coscienza. Carlo Cattaneo, impropriamente adottato ora dalla Lega come suo ideologo, scrisse nel 1864 un saggio intitolato «Sulla legge comunale e provinciale». In essa pregò il nuovo governo italiano di rispettare le leggi locali esistenti in Lombardia e altrove, molto più avanzate e democratiche di quelle piemontesi, allora da poco imposte a livello nazionale. Per Cattaneo i piccoli comuni democratici e ben funzionanti erano «la nazione nel più intimo asilo della sua libertà».

L’arte di governo italiana era tutta qui, nel comune e nella città: «Pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi». Naturalmente, la nuova classe dirigente italiana disse di no alle proposte ben sostanziate di Cattaneo, ma le sue parole hanno continuato a volare attraverso i decenni, e costituiscono un esempio significativo di quello che avrebbe potuto essere ma non fu. Nel suo bell’articolo (il manifesto 2ottobre) Pierluigi Sullo insiste sulla necessità di incoraggiare e immaginare comunità «neo-democratiche», capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Sullo suggerisce che Pisacane si troverebbe a suo agio al Presidio No Dal Molin. Aggiungiamo pure Cattaneo, anche con il rischio di uno scontro immediato tra i due – l’uno lombardo, e poi ticinese, l’altro napoletano, l’uno professore universitario, l’altro ex-ufficiale dell’esercito, un liberale di ferro contrapposto a un sognatore socialista.

Se l’autogoverno è un primo tema sconfitto dalla storia italiana, un ramo più che un tronco, un secondo ramo di grande interesse e attualità è quello dell’uguaglianza. Oggi l’Italia è uno dei paesi più disuguali del mondo, vicino nelle tabelle internazionali ai quattro peggiori – Portogallo, Gran Bretagna, gli Usa e Singapore. In Italia il 20% più ricco della popolazione è distanziato dal 20% più povero da un reddito circa sette volte superiore. Ma questa cifra complessiva rischia di mascherare la drammaticità di due altre componenti della disuguaglianza italiana – una geografica – il divario tra Nord e Sud, e l’altra tra individui. Marco Revelli ha riportato, all’affollato convegno fiorentino sul berlusconismo della scorsa settimana, le cifre impressionanti sulle disparità della ricchezza individuale nell’Italia neo-liberista.

Torniamo al Risorgimento. Poche ma significative sono le voci che si sollevano contro le grandi disuguaglianze del tempo, quelle soprattutto tra bracciante affamato e proprietario terriero spesso assenteista.

Una di queste è di nuovo Pisacane che nel suo Testamento politico (1857) dichiara la società moderna governata da «una legge economica e fatale», che avrebbe accumulato tutte le ricchezze «in ristrettissime mani». Dopo 150 anni nulla si rivela di più sensato. Specialmente alla luce degli studi più recenti, come quello di Richard Wilkinson e Kate Pickett (The Spirit Level), che dimostrano come le società più disuguali siano le più infelici. In moltissimi ambiti – basso livello di fiducia, alto livello di sorveglianza, scarsa parità di genere, obesità, percentuale di carcerati … – le società diseguali nel complesso hanno risultati assai peggiori di quelle più paritarie.

Forse le figure più autorevoli del Risorgimento avrebbero dovuto dare un po’ più di ascolto a quell’isolato ex-ufficiale dell’esercito napoletano che, pallidissimo, sul molo di Genova, dettava il suo testamento politico a Jessie White Mario, prima di andare a morire nel Cilento. Se l’avessero fatto, forse l’Italia sarebbe oggi una nazione più felice. Ma la storia, come si sa, non si scrive con i se.

Il manifesto, 23 ottobre 2010

Precari, un domani senza certezze

A Milano flessibili l’80% dei nuovi contratti. Co.co.pro. e partite Iva: «Come vivere con 400 euro al mese?»

MILANO – Qualcuno andrebbe sotto la soglia dell’assegno sociale. Qualcun altro la supererebbe di poco. Almeno se la situazione rimarrà immutata. La pensione sta diventando un miraggio per una generazione. Cioè quella precaria. Quella dei contratti parasubordinati e governata dall’incertezza. «Più che altro la previdenza è un incubo. È un ulteriore problema alle difficoltà quotidiane». E c’è chi scherza: «Forse sarebbe meglio morire prima». Ma intanto, calcoli alla mano, per tantissimi, quando arriveranno i soldi dell’Inps basteranno solo per due settimane. O almeno nei migliori dei casi.

Quanti sono i precari
«Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale», aveva detto Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps. Una battuta che ha scatenato commenti su Internet. E tanta indignazione. «Avevano promesso che questi contratti sarebbero andati a nostro vantaggio. La realtà è molto diversa».

Già ma quanti sono i giovani e i meno giovani precari? «Sono tanti. E sempre in crescita», sottolinea Andrea Fumagalli, docente di Economia politica all’Università di Pavia e impegnato nella rete San Precario. Basti pensare che in città «il 78% dei nuovi contratti sono atipici». Un dato che per l’Osservatorio del mercato del lavoro della Provincia è ancora più alto: «Fino al 90%». Insomma la precarietà è una «condizione» per quasi tutti gli under 40. E oltre. «Non è più una tendenza, ma una realtà in tutte le metropoli. A cominciare da Milano, dove c’è una grande svalorizzazione del lavoro, cioè non viene pagato adeguatamente», continua Fumagalli. Soprattutto di quello cognitivo. «Dove si usano le capacità intellettuali». E gli esempi sono tanti: dalla moda al design. Passando per insegnanti e ricercatori.

Continuità di reddito
La parola d’ordine è cambiare. Partendo da «interventi sul mercato del lavoro e sulle politiche di welfare». Per esempio? «Garantire una continuità di reddito. Poi i servizi: mobilità, scuola, Internet. Tutto quello che può fare autoformazione». È quello che chiedono gli attivisti di San Precario, che raggruppa lavoratori atipici e cerca di tutelarne i diritti. Per questo hanno incontrato i quattro candidati alle primarie del centrosinistra in vista delle elezioni comunali. Da Pisapia, Boeri, Onida e Sacerdoti, hanno voluto chiarimenti: «Per quel che riguarda lo Stato sociale».

Una vita sospesa
Ma in attesa di cambiare, c’è chi, ogni giorno cerca di sopravvivere. «Cosa vuol dire essere precario? Tanti mal di pancia e insonnia. È logorante da un punto di vista fisico. Ci si sente precari in tutto». Luca Loizzi, 36 anni, professore di Lettere, riassume così un sentimento condiviso da migliaia di persone. «Ho cominciato a lavorare nel ’97 in una scuola privata. Tutto in nero». Poi la scuola di formazione e il primo «vero» contratto. «Ogni anno un posto nuovo, con i colleghi che ti trattano come l’eterno ragazzo. Anche se oramai hai anni di servizio». Poi ci sono le rinunce: «Niente auto, poche uscite». Quando si parla di famiglia, sospira: «Meglio non averla. Già è difficile in queste condizioni».

Lo sa bene Giuseppina Mazzacuva, 32 anni operatrice telefonica, un figlio e un altro in arrivo. «Mi è scaduto il contratto a marzo e visto che sono incinta non mi hanno richiamato». Il tema della maternità precaria è insidiosa e soprattutto «poco tutelata». Alla pensione non ci pensa: «E come faccio? Quella privata costa e non posso fare altre rinunce. Un mutuo sulle spalle, i bambini, e tante preoccupazioni.

Diciassette contratti e tre cause
Gli stessi timori che ha Ruggero Ricciardi, 29 anni disoccupato dopo anni in Fiera. «Non sono stato rinnovato dopo una protesta perché non ci pagavano». E ora è a caccia di un lavoro, ma «c’è la crisi». L’elemento ricattabilità è ricorrente per ogni contratto «atipico». E in una giungla di Co.co.co, Co.co.pro, interinale e tempo determinato, orientarsi è complicato. «Prima di ottenere l’indeterminato, ho firmato 17 contratti e ho fatto tre cause, tutte vinte», spiega Stefano Mansi, 40 anni, impiegato comunale, due figli e il sogno di fare il giornalista. «Lo facevo, poi è arrivata la famiglia e, per fortuna, sono riuscito a farmi assumere». Una cosa vuole sottolineare: «Non è una scelta fare il precario. Oramai è una condizione di un’intera generazione». Lo sa bene anche Barbara Falciai, 42 anni, educatrice: «ho perso il conto di quanti contratti ho firmato. La pensione? Da anni me ne sono dimenticata».

Benedetta Argentieri
05 novembre 2010

La polizia ci spia su Facebook

Dall’Espresso, di Giorgio Florian

Un patto segreto con il social network. Che consente alle forze dell’ordine di entrare arbitrariamente e senza mandato della magistratura in tutti i profili degli utenti italiani. Lo hanno appena firmato in California
(28 ottobre 2010)
Negli Stati Uniti, tra mille polemiche, è allo studio un disegno di legge che, se sarà approvato dal Congresso, permetterà alle agenzie investigative federali di irrompere senza mandato nelle piattaforme tecnologiche tipo Facebook e acquisire tutti i loro dati riservati. In Italia, senza clamore, lo hanno già fatto. I dirigenti della Polizia postale due settimane fa si sono recati a Palo Alto, in California, e hanno strappato, primi in Europa, un patto di collaborazione che prevede la possibilità di attivare una serie infinita di controlli sulle pagine del social network senza dover presentare una richiesta della magistratura e attendere i tempi necessari per una rogatoria internazionale. Questo perché, spiegano alla Polizia Postale, la tempestività di intervento è fondamentale per reprimere certi reati che proprio per la velocità di diffusione su Internet evolvono in tempo reale.

Una corsia preferenziale, insomma, che potranno percorrere i detective digitali italiani impegnati soprattutto nella lotta alla pedopornografia, al phishing e alle truffe telematiche, ma anche per evitare inconvenienti ai personaggi pubblici i cui profili vengono creati a loro insaputa. Intenti forse condivisibili, ma che di fatto consegnano alle forze dell’ordine il passepartout per aprire le porte delle nostre case virtuali senza che sia necessaria l’autorizzazione di un pubblico ministero. In concreto, i 400 agenti della Direzione investigativa della Polizia postale e delle comunicazioni potranno sbirciare e registrare i quasi 17 milioni di profili italiani di Facebook.

Ma siamo certi che tutto ciò avverrà nel rispetto della nostra privacy? In realtà, ormai da un paio d’anni, gli sceriffi italiani cavalcano sulle praterie di bit. Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza e persino i vigili urbani scandagliano le comunità di Internet per ricavare informazioni sensibili, ricostruire la loro rete di relazioni, confermare o smentire alibi e incriminare gli autori di reati. Sempre più persone conducono in Rete una vita parallela e questo spiega perché alle indagini tradizionali da tempo si affianchino pedinamenti virtuali. Con la differenza che proprio per l’enorme potenzialità del Web e per la facilità con cui si viola riservatezza altrui è molto facile finire nel mirino dei cybercop: non è necessario macchiarsi di reati ma basta aver concesso l’amicizia a qualcuno che graviti in ambienti “interessanti” per le forze dell’ordine.

A Milano, per esempio, una sezione della Polizia locale voluta dal vicesindaco Riccardo De Corato sguinzaglia i suoi “ghisa” nei gruppi di writer, allo scopo di infiltrarsi nelle loro community e individuare le firme dei graffiti metropolitani per risalire agli autori e denunciarli per imbrattamento. Le bande di adolescenti cinesi che, tra Lombardia e Piemonte, terrorizzano i connazionali con le estorsioni, sono continuamente monitorate dagli interpreti della polizia che si insinuano in Qq, la più diffusa chat della comunità. Anche le gang sudamericane, protagoniste in passato di regolamenti di conti a Genova e Milano, vengono sorvegliate dalle forze dell’ordine. E le lavagne degli uffici delle Squadre mobili sono ricoperte di foto scaricate da Facebook, dove i capi delle pandillas che si fanno chiamare Latin King, Forever o Ms18 sono stati taggati insieme ad altri ragazzi sudamericani, permettendo così agli agenti di conoscere il loro organigramma.

Veri esperti nel monitoraggio del Web sono ormai gli investigatori delle Digos, che hanno smesso di farsi crescere la barba per gironzolare intorno ai centri sociali o di rasarsi i capelli per frequentare le curve degli stadi. Molto più semplice penetrare nei gruppi considerati a rischio con un clic del mouse. Quanto ai Carabinieri, ogni reparto operativo autorizza i propri militari, dal grado di maresciallo in su, ad accedere a qualunque sito Internet per indagini sotto copertura, soprattutto nel mondo dello spaccio tra giovanissimi che utilizzano le chat per fissare gli scambi di droga o ordinare le dosi da ricevere negli istituti scolastici. Mentre, per prevenire eventuali problemi durante i rave, alle compagnie dei Carabinieri di provincia è stato chiesto di iscriversi al sito di social networking Netlog, dove gli appassionati di musica tecno si danno appuntamento per i raduni convocando fans da tutta Europa. A caccia di raver ci sono anche i venti compartimenti della Polizia postale e delle comunicazioni, localizzati in tutti i capoluoghi di regione e 76 sezioni dislocate in provincia.

I conti non tornano

La frase più terribile, ma anche ridicola è quella che ci dice che chi ha iniziato nel 96 non arriverà probabilmente al valore dell’assegno sociale. Si tenga presente, per accorgersi della bestialità, che l’utilizzo dei cococo (poi cocopro, alcune volte lap) è precedente alla legge Treu del 97 e riguardava principalmente collaboratori altamente qualificati. Solo dopo il pacco-pacchetto Treu l’uso dei parasubordinati si è massificato e dequalificato.  In pratica in quella frase “a rischio di non arrivare all’assegno sociale chi ha iniziato nel ’96”  si annida l’osservazione implicita ma non esplicitata che il 99% dei cocoche non avrà la pensione se non quella sociale. Mamma mia!

Dal corriere.it

Secondo la Cgil chi prende 1.240 euro al mese dopo 40 anni riceverà un assegno di 508 euro. Le minipensioni dei parasubordinati Avranno appena il 36% del reddito
A rischio di non arrivare all’assegno sociale chi ha iniziato nel ’96

ROMA – Lo spettro è quello dell’assegno sociale, oggi pari a poco più di 400 euro, che l’Inps eroga ai bisognosi. Molti giovani lavoratori atipici, se non escono dalla trappola della precarietà, rischiano di avere questo sussidio invece della pensione. La questione della previdenza dei parasubordinati è arrivata la scorsa settimana in Parlamento e finisce oggi in piazza. L’Italia dei Valori, primo firmatario il capogruppo Felice Belisario, ha presentato in Senato un’interrogazione urgente ai ministri del Lavoro e dell’Economia, Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti. Nella richiesta di chiarimenti al governo il partito fa riferimento ad una frase attribuita al presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che con una battuta avrebbe reso l’idea del problema: «Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale». Quale che sia la verità, questa mattina, invece, il Nidil-Cgil, sindacato dei lavoratori atipici, ha organizzato una iniziativa davanti all’Inps di Roma Centro, a piazza Augusto Imperatore, insieme al patronato Inca e al dipartimento giovani della stessa Cgil. A fare i conti saranno gli esperti del sindacato, spiega la confederazione guidata da Guglielmo Epifani.

È evidente che, soprattutto per i collaboratori (prima co.co.co. e poi co.co.pro.) che hanno cominciato nel 1996, quando fu istituita la speciale gestione presso l’Inps, e che non riescono a trovare un posto fisso il futuro riserva una pensione da fame. Nei primi anni della gestione, infatti, ai parasubordinati senza altra copertura previdenziale pubblica si applicava un’aliquota contributiva del 10-12%, poi salita gradualmente fino al 26,72% in vigore dal primo gennaio 2010. Essendo i redditi di questa categoria di lavoratori generalmente bassi e discontinui (tra un contratto e l’altro passano mesi) è chiaro che col metodo contributivo, integralmente applicato a tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dopo la riforma Dini, sarà difficile maturare una pensione superiore all’assegno sociale (oggi 411 euro al mese). Nel frattempo, però, il paradosso è che con i contributi che i parasubordinati versano al loro fondo Inps, in attivo di oltre 8 miliardi (perché finora incassa solo ed eroga pochissime presta) si pagano le pensioni alle categorie che non ce la farebbero con i soli versamenti dei loro iscritti, dai dirigenti d’azienda ai lavoratori degli ex fondi speciali: telefonici, elettrici, trasporti.

Per fortuna le prospettive previdenziali migliorano per i parasubordinati che hanno cominciato a lavorare in questi ultimi anni (l’aliquota era per esempio salita già al 23,5% nel 2007), ma la possibilità di raggiungere una pensione dignitosa dipende fondamentalmente dal reddito percepito durante gli anni di lavoro e dalla sua continuità (e per questo le donne sono svantaggiate). In ogni caso, l’assegno sarà in proporzione sempre inferiore a quello di un lavoratore dipendente, che paga il 33% di contributi. Insomma le variabili sono troppe, spiega l’Inps, senza contare che di regola la condizione di parasubordinato non è a vita e quindi non avrebbe senso, continua l’istituto, stimare la pensione su pochi anni di contribuzione da parasubordinati.

Il problema è davvero serio per chi non riesce ad uscire dalla precarietà. La crisi aggrava il fenomeno. Il vicedirettore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un recente intervento al convegno di Genova della Confindustria ha osservato che «solo un quarto circa dei giovani tra 25 e 34 anni occupati nel 2008 con un contratto a tempo determinato o di collaborazione aveva trovato dopo 12 mesi un lavoro a tempo indeterminato o era occupato come lavoratore autonomo, mentre oltre un quinto era transitato verso la disoccupazione o era uscito dalle forze di lavoro».

Se l’Inps non fornisce previsioni sulle pensioni dei parasubordinati, altri lo fanno. Filomena Trizio, segretaria generale del Nidil-Cgil, spiega che i suoi uffici hanno elaborato due esempi. Il primo riguarda un parasubordinato che ha cominciato nel ’96 e il secondo uno che comincia nel 2010. Per entrambi si ipotizza che tra un contratto e l’altro ci sia circa un mese di non lavoro all’anno, che restino in attività per 40 anni, che abbiano una retribuzione iniziale di 1.240 euro al mese e che vadano in pensione a 65 anni. Il primo, quello svantaggiato da contribuzioni iniziali più basse, avrebbe una pensione pari al 41% dell’ultimo reddito, cioè 508 euro al mese, il secondo al 48,5%, ovvero 601 euro. «Per arrivare a un tasso del 60% – dice Trizio – bisogna ipotizzare che questi collaboratori dopo i primi 5 anni diventino dipendenti». Infine, va considerato che questi lavoratori, dati i bassi compensi che mediamente ricevono, non hanno di solito le risorse per farsi una pensione complementare. Col patto sociale sottoscritto col governo Prodi, ricorda Trizio, «era stato sancito l’impegno di garantire alle carriere lavorative discontinue un tasso di sostituzione del 60%, ma con questo governo non se n’è fatto nulla». Anche secondo Maurizio Petriccioli, segretario confederale della Cisl, bisogna «rafforzare la contribuzione figurativa per i periodi non lavorati a fronte di disoccupazione, maternità e lavoro di cura familiare».

Stime più favorevoli provengono invece da Progetica e dal Cerp. La prima, società di consulenza specializzata nella finanza personale, ha fatto alcune elaborazioni per il supplemento Pensioni del CorrierEconomia del 29 marzo scorso. Si ipotizzano tre parasubordinati che abbiano cominciato a lavorare a 25 anni: il primo 10 anni fa, il secondo 5 e il terzo nel 2010. Tutti e tre si prevede che arrivino a fine carriera con un retribuzione lorda di 36 mila euro. La loro pensione, secondo Progetica, oscillerà da un minimo del 36% dell’ultimo stipendio, in caso di ritiro a 63 anni, a un massimo del 62% per il giovane che comincia adesso e va in pensione a 65 anni (il 55% invece per chi ha cominciato 10 anni fa). Per le donne, che in media guadagnano un po’ meno e hanno periodi di non lavoro maggiori (soprattutto in caso di maternità) le stime sono un po’ più basse: tra il 36 e il 57% dell’ultima retribuzione.

A conclusioni simili arriva anche uno studio del 2008 del Cerp, il centro di ricerche sulla previdenza diretto da Elsa Fornero. Il tasso di sostituzione oscillerebbe infatti il 49 e il 53% ritirandosi a 60 anni, rispettivamente dopo 35 e 40 anni di attività. Ma la ricerca del Cerp è interessante soprattutto perché giunge alla conclusione che, in media un parasubordinato perde, rispetto a un lavoratore dipendente che paga il 33% di contributi, tra l’uno e l’uno e mezzo per cento all’anno sull’importo della pensione.

Enrico Marro

Ricchi e poveri e welfare

Negli USA nelle fasi in cui la differenza ricchi/poveri è piu acuta, entrambi i gruppi sociali chiedono meno intervento dello stato nel welfare. E ci rende i poveri piu poveri e i ricchi piu ricchi. Sono uqeste le conclusioni di questo studio cheprende in considerazione dati dagli anni 50 a oggi. La causa? forse lo sforzo supplementare di padroni e media nell’attaccare lo stato sociale in fasi di crisi. Sai che novità…

UT professor finds economic inequality is self-reinforcing

When the gap between the haves and have-nots gets larger, a University of Tennessee professor has found that the poor would rather the government not intervene to help them

When the gap between the haves and have-nots gets larger, one would think the have-nots would want more help, most likely in the form of government programs, to fight rising inequities.

Not so, says Nate Kelly, assistant professor of political science at the University of Tennessee, Knoxville.

Kelly, along with Peter Enns of Cornell University, conducted a study analyzing economic inequality and public opinion toward government intervention. The study has been published in the October edition of the American Journal of Political Science and can be viewed by visiting this link, http://web.utk.edu/~nkelly/papers/inequality/KellyEnns_preprint.pdf.

What he found defies expectations.

“When inequality in America rises, both the rich and the poor become more conservative in their ideologies. It is counterintuitive, but rather than generating opinion shifts that would make redistributive policies more likely, increased economic inequality produces a conservative response in public sentiment,” said Kelly.

As the rich become richer and the poor become poorer, both sides reduce their support for government programs such as welfare. This desire only increases as the economic gap widens. Therefore, inequality is a self-perpetuating phenomenon.

“Economic inequality is, in fact, self-reinforcing. When economic inequality is high or low, it is likely to produce even higher or lower future levels of inequality. We find that economic inequality is self-reinforcing, not due to lack of responsiveness to the poor, but to how the preferences of both the rich and the poor respond to changes in income inequality,” said Kelly.

The researchers came to this conclusion by analyzing hundreds of thousands of responses to survey questions from 1952 to 2006.

“Subjects who were poor were explicitly asked if they thought the government spent too much money on welfare and more of them answered ‘yes’ during times of high inequality,” said Kelly.

This isn’t because the poor do not know their financial situation. In fact, the authors found that the poor were more acutely aware of wealth differences than the rich to the point of overstatement. Instead, the authors speculate that elites such as political leaders play a large role in distracting and shaping public opinion about issues such as welfare.

The authors also believe the media may be a key factor in how government programs are framed in the public eye. For instance, in good economic times the media focus on individual achievement, which may influence the poor to oppose government programs. During bad economic times, the media focuses on people being down on their luck and the government helping them.

Kelly is currently working to determine the causes of his surprising finding. He hopes his next discovery may help halt the seemingly inexorable rise in inequality.

“What is clear from our work is that the self-reinforcing nature of economic inequality is real, and that we must look beyond simple defects in the policy responsiveness of American democracy to understand why this is the case.”