I Cie, il Male e la Paura (terza ed ultima parte)

qua e qua trovate le puntate precedenti. I Cie vengono spacciati per i luoghi necessari all’identificazione e al rimpatrio, ma in realtà hanno altre funzioni ben più importanti: politiche, poliziesche, economiche, simboliche. Servono agli Stati nazionali in crisi per dimostrare che hanno ancora il controllo del loro territorio e che sono ancora capaci di curare i loro cittadini rispetto alle ansie prodotte proprio dalle politiche ufficiali; servono al mercato del lavoro perché producono come una fabbrica “clandestini” pronti per l’uso, ricattabili e sprovvisti di diritti, servono in generale ai poteri della società di controllo nella quale ci ritroviamo a vivere perché sono laboratori di confinamento dove affinare tutta una serie di pratiche di gestione della popolazione estendibili anche ad altre categorie di individui.

 

Si assiste, dunque, ad un duplice sfruttamento dell’immigrato: come lavoratore e come corpo. Se, infatti, da una parte la detenzione amministrativa nei Cie crea le condizioni per un maggior sfruttamento dei lavoratori immigrati (attraverso la loro clandestinizzazione), dall’altro diviene una fonte di profitto per chi gestisce concretamente i centri (Croce Rossa, Confraternita della Misericordia) e per le compagnie aeree responsabili delle deportazioni (Alitalia, Eurofly) pagati profumatamente dallo Stato. Infine, da non sottovalutare è la stigmatizzazione dell’immigrato individuato come nemico interno e come minaccia da quei politici che è possibile definire come “imprenditori della paura”.

Vediamo dunque come i Cie (ovviamente insieme all’impianto legislativo in cui sono inseriti) arrivano a produrre ciò che, secondo i suoi fautori, dovrebbero combattere: i famosi “clandestini”.

Secondo l’ultimo Rapporto annuale della Caritas (Dossier 2010) in Italia ci sono tra i 500.000 e i 700.000 “irregolari”. Nell’ultimo anno, sempre secondo il dossier della Caritas, sono stati espulsi circa 18.000 migranti, circa la metà di quelli entrati effettivamente nei Cie. E gli altri che fine fanno?

Ebbene gli altri tornano in “libertà” privati di qualsiasi diritto e con la minaccia di un arresto se trovate dopo cinque giorni ancora in Italia, in questa maniera ritornano ad essere dei fantasmi (delle Non-Persone secondo una celebre definizione) pronti ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione, ecco il vero risultato del percorso di clandestinizzazione dei migranti: manodopera completamente ricattabile, Foucault direbbe “corpi docili e utili”. L’idea di fondo che sottende le attuali leggi è infatti che i migranti non siano dei soggetti di diritto e futuri cittadini, ma lavoratori “ospiti” (in Germania negli anni ‘50-’60 parlavano appunto di “gastarbeiter”, ma questi lavoratori, visto il ciclo economico positivo, a volte riuscivano a stabilizzare la propria condizione, cosa molto difficile oggi nell’epoca della precarietà totale), anzi merce-lavoro di passaggio, da utilizzare finché serve, meglio se deprivati di diritti e dunque più ricattabili e ridotti a pura fungibilità. Mi sembra che la sbandierata ideologia dell’immigrazione-zero lasci il posto ad una ben più reale immigrazione a zero diritti.

Per tutti questi motivi è facile rendersi conto del fatto che chiudere i Cie, adesso, vorrebbe dire per il governo italiano da una parte rinunciare a un ruolo importante nella gestione del controllo della circolazione delle persone, ma dall’altra incrinare degli equilibri economici e politici fondati sulla gestione securitaria del fenomeno migratorio. La chiusura dei Cie significherebbe, per una volta, anteporre la vita delle persone alla diplomazia internazionale, al mercato, al consenso. Un obiettivo lontano anni luce dall’agenda politica pre-elettorale del cosiddetto Belpaese.



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