Il workshop Migranti nella precarietà: lavoro, lotte, razzismo ha discusso l’impatto dell’ultimo anno di lotte dei migranti sull’organizzazione complessiva del lavoro migrante e precario in Italia e in Europa. I passaggi fondamentali del 2010 sono stati le lotte di Rosarno, lo sciopero migrante del primo marzo, la lotta di migranti e italiani sopra e sotto la gru a Brescia e la torre di via Imbonati a Milano, la manifestazione regionale dei migranti dell’Emilia Romagna. Se tutte queste lotte, costruite e partecipate da lavoratori e lavoratrici migranti e italiani insieme, sono stati in modi diversi punti di svolta di grande importanza, lo sciopero del primo marzo ha forse rappresentato una prima esperienza di sciopero precario, e da questo punto di vista va ulteriormente analizzato. In ogni caso in tutte quelle lotte la condizione migrante si è mostrata come intreccio di condizioni di precarizzazione della vita e del lavoro.
Abbiamo perciò assunto che il lavoro migrante è centrale per la costruzione di un punto di vista precario. Prendendo le mosse da questa convinzione il workshop ha in primo luogo affrontato il rapporto tra lavoro migrante e sindacato, l’insufficienza delle strutture sindacali e il declino del diritto del lavoro nel suo complesso. L’approccio a questi temi da un punto di vista precario ha evidenziato il valore paradigmatico del lavoro migrante rispetto alla precarizzazione e alla trasformazione del lavoro. Si è inoltre sottolineato come il trend europeo costituisca il quadro essenziale per comprendere i processi complessi che investono le varie realtà lavorative così come lo sono gli interventi legislativi recenti come il Collegato lavoro.
L’irregolarità istituzionalizzata e normata, ovvero il migrante inteso come cittadino costantemente precario, rappresenta il nodo centrale della trasformazione del rapporto tra lavoro e cittadinanza: il lato terribile del lavoro migrante è che mostra quanto irregolare può diventare il rapporto con il reddito, con la salute, con l’istruzione. La condizione del migrante non dipende da eccezioni più o meno occasionali al diritto vigente, ma dipende sempre più dalla vigenza di un diritto che stabilisce, gestisce e difende la non uniformità, invece che l’uniformità. L’azione politica e sindacale si è invece organizzata in questi anni intorno alla polarità cittadino lavoratore, in quanto figure dell’uniformità sociale. E qui ha scontato i suoi limiti. I migranti sono stati coinvolti nella crisi di quella dicotomia e allo stesso tempo hanno contribuito a farla saltare. I migranti hanno dimostrato e dimostrano che si può essere lavoratori senza diventare (e senza poter diventare) cittadini. Si collocano materialmente nella frattura che si allarga tra i due termini. Il loro contratto di lavoro ha conosciuto in anticipo l’asimmetria di potere che oramai caratterizza tutti i contratti di lavoro precari. Il sindacato non sa come rappresentare i migranti perché li vuole rappresentare come cittadini che non sono; li potrebbe rappresentare come lavoratori, ma non è strutturato per farlo, perché la loro esistenza e il lavoro sono condizionati da misure amministrative e legislative che non vengono pattuite con il contratto di lavoro. Il “sindacato dei servizi”, soprattutto nel caso del lavoro migrante, la soluzione di pratiche amministrative e legali, rappresenta una scelta politica che finisce per mostrare i limiti della forma confederale del sindacato e la sua incapacità di riconoscere la frammentazione sociale delle figure lavorative. Alla questione migrante si guarda allora come problema che si dà fuori dal lavoro, come problema che dovrebbe essere risolto riconoscendo dei diritti universali. Si deve invece riconoscere che nel lavoro migrante si sta ridefinendo non solo la presenza migrante e la sua irregolarità, ma anche la qualità generale del lavoro che si precarizza.
Definire un punto di vista precario a partire dalla condizione dei migranti significa allora farsi carico degli elementi di crisi che questa condizione mette in luce sia rispetto alle trasformazioni del lavoro contemporaneo, sia rispetto ai momenti di organizzazione politica. La discussione attorno al lavoro delle donne migranti, in questo senso, ha messo in luce la sua centralità nei processi di destrutturazione del welfare attraverso l’istituzionalizzazione, su scala transnazionale, della divisione sessuale del lavoro riproduttivo, ma ha anche mostrato che la monetarizzazione del welfare stesso (che è in parte già in atto e che sarebbe ulteriormente rafforzata anche da forme di reddito di cittadinanza) rischia sempre di alimentare quel processo di precarizzazione che si esprime nella salarizzazione del lavoro domestico e di cura. Farsi carico della condizione specifica delle donne migranti, dunque, significa anche farsi carico degli elementi critici che esse pongono rispetto alle rivendicazioni dei precari. Non si tratta di generalizzare la loro condizione, dando alla precarietà il nome di “femminilizzazione del lavoro”. Si tratta invece di considerare che proprio in quanto donne le migranti si trovano sempre più ricattate, costrette nei percorsi definiti dalla divisione sessuale del lavoro riproduttivo transnazionale, confinate dentro a un ambito domestico che limita radicalmente le possibilità di prendere parte alle lotte dei migranti e dei precari e che impone perciò di costruire spazi pubblici e politici in cui la dimensione domestica del lavoro salariato conquista la politicità che a esso spetta.
All’interno della discussione è stata sottolineata la funzione di controllo e repressione ricoperta dai Cie rafforzata dall’approvazione del pacchetto sicurezza. D’altronde questi centri non esistono solamente in Italia, ma svolgono ormai il ruolo di controllo delle migrazioni fin dentro i paesi di partenza (esemplari a questo riguardo gli accordi tra Italia e Libia per il controllo delle migrazioni nel Mediterraneo).
Così come il controllo anche i movimenti dei migranti sono però ormai comprensibili solo nel loro spazio transnazionale e mettono in crisi ogni organizzazione sindacale e politica che non ne riconosca la centralità. Ciò è apparso assolutamente chiaro nei lavori del Forum mondiale di Quito, nel quale si sono incontrate le esperienze dei migranti verso l’America del nord e la condizione di quelli che rimangono nei loro luoghi di origine. La migrazione deve essere ormai compresa come un movimento che non investe solo i luoghi di arrivo, ma modifica anche la struttura sociale ed economica di quelli di partenza, e dunque ogni discorso su una cittadinanza che non può essere intesa solo come riconoscimento di una appartenenza nazionale. Il luogo della migrazione è uno spazio politico che si apre nel momento in cui i migranti fanno valere la loro presenza rompendo l’istituzionalizzazione che li vuole forza lavoro utilizzabile o espellibile secondo le condizioni del mercato del lavoro. Ciò è emerso chiaramente dagli interventi dei compagni – italiani e migranti – che hanno animato le lotte sulla gru e sulla torre a Brescia e Milano.
È convinzione comune e condivisa che tutte queste riflessioni, e di conseguenza le diverse iniziative, non possono prescindere dalla quotidiana esperienza di ricatto, razzismo e precarietà che sempre più segna la vita dei migranti. In fondo la sanatoria truffa non è stata un caso, ma la somma tutt’altro che casuale di tutte queste cose.
Il workshop si è concluso con la proposta da riportare all’assemblea plenaria affinché il prossimo primo marzo – nuova giornata di mobilitazione e sciopero dei migranti e con i migranti – sia assunto come una scadenza propria degli Stati generali 2.0 nel loro complesso.
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