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Milano – Lunedì 26 Marzo al Liceo Carducci, Via Beroldo 9 (MM1 2 Loreto) ore 21 Assemblea metropolitana sugli obiettivi della manifestazione del 31 marzo: debito, lavoro, reddito, lotta alla precarietà, opposizione al governo Monti, difesa dei diritti, dei territori e dei beni comuni.
La contro-riforma del lavoro avanza a passo spedito, dietro la maschera di provvedimenti pseudo-tecnici. Ad esclusione del movimento No-Tav e dello sciopero della Fiom, non sembra ci sia qualcuno che alzi e provi ad opporsi ai velenosi frutti del governo Monti.
I dettagli allarmanti che trapelano dai mezzi di informazione prefigurano un peggioramento delle già precarie condizioni di tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro Paese. E ciò dopo che già era stato ridotto il livello delle pensioni e allungata l’età lavorativa. E’ la conferma finale che la precarietà e l’incertezza di reddito sono oggi le caratteristiche salienti del rapporto di lavoro, a prescindere da qualsiasi contratto o condizione professionale.
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Il prossimo 28 gennaio – come è noto – si terrà lo sciopero generale dei metalmeccanici, a cui hanno aderito anche alcuni sindacati di base e molti spezzoni di movimento, alcuni dei quali si sono incontrati lo scorso week-end al C.S. Rivolta a Marghera. Diverse sono le parole d’ordine. Tra questi quella che spicca in prima linea, leit motiv delle precedenti mobilitazioni della Fiom contro il Piano Marchionne è: lavoro bene comune. San Precario si permette di dissentire. Il lavoro come bene comune è il lavoro preminentemente operaio (ma non solo) che sta alla base del processo di accumulazione del capitale. E’ chiaro che tale slogan vuole ridare dignità, considerazione, rispetto e soprattutto remunerazione al lavoro di oggi. E non può essere altrimenti, dal momento che negli ultimi anni abbiamo assistito ad una vera e propria dequalificazione e svalorizzazione del lavoro, di tutti i lavori (da quelli servili a quelli cognitivi). Prosegui la lettura »
Agosto è, da sempre, il mese delle parole in libertà nel Belpaese. I giornali sono avidi di spunti da offrire a lettori che non hanno voglia o modo di approfondire, di chiedersi chi, come e perché. E poi ci sono tante tribune nei luoghi di villeggiatura per chi vuole cimentare le proprie arti oratorie. Gli applausi sono garantiti. Il pubblico è in vacanza, cerca diversivi ed è di bocca buona.
TUTTI PAZZI PER LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI DI IMPRESA
Questo agosto è stata di moda la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno parlato in quel di Rimini, tra gli altri, Cesare Geronzi (“vanno sperimentate forme articolate di partecipazione ai risultati aziendali”), Maurizio Sacconi (“Giusto che i lavoratori acquisiscano il diritto a condividere i risultati delle loro fatiche anche in termini di salario collegato ai risultati dell’attività aziendale”) e, infine, Giulio Tremonti (“la politica di combinazione tra capitale e lavoro va sviluppata con una remunerazione calcolata sugli utili delle imprese”).
Belle parole. Ma cosa vorranno dire? Strano che nessun sul palco abbia chiesto chiarimenti agli illustri relatori. Peccato anche perché forse la folla adriatica avrebbe apprezzato moderatori che incalzavano gli ospiti invece di limitarsi a ossequiarli. Non possiamo allora che cercare di carpire il significato di queste parole dai comportamenti di chi le ha pronunciate. Dopotutto, non c’è nulla, proprio nulla, che impedisca loro di metterle in pratica. Nel loro piccolo o grande che sia.
Cesare Geronzi è stato, in sequenza, direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, poi Banca di Roma e Capitalia, presidente di Mediobanca e di Assicurazioni Generali. Queste aziende hanno conseguito profitti ingenti durante la sua reggenza. Ma non ci risulta che Geronzi abbia reso i suoi dipendenti “partecipi dei risultati aziendali”. Forse intendeva rendere partecipi gli stakeholders, le famiglie che avevano messo i loro risparmi in queste banche. In effetti, la Banca di Roma ha indotto molte di loro a comprare azioni e obbligazioni Cirio e Parmalat, partecipando attivamente al crac di queste società. Una partecipazione utile, ma per qualcun altro.
Giulio Tremonti è stato ministro dell’Economa (per otto degli ultimi dieci anni e in tre degli ultimi quattro governi) e Maurizio Sacconi ministro del Lavoro (da due anni, prima per cinque anni è stato sottosegretario). Da molto tempo hanno annunciato una legge sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. L’ultima volta in cui avevano dichiarato che sarebbe stata “legge entro l’anno” era esattamente un anno fa. Da allora non se ne è saputo più nulla. C’era anche un testo bi-partisan elaborato dalla commissione Lavoro del Senato di cui si è perso traccia. I contribuenti italiani (tra cui soprattutto ci sono lavoratori dipendenti) hanno comunque nel frattempo partecipato alle perdite di Alitalia, accollandosi circa 3 miliardi di debiti della “bad company”.
Non che sia andata meglio ai dipendenti degli studi professionali. Forse qualcuno si era illuso leggendo del divieto per gli avvocati di costituirsi in società di capitali, una misura che verrà presto estesa a tutti gli ordini professionali, secondo il Guardasigilli Alfano. Forse, avrà pensato, serve affinché gli studi spartiscano gli utili coi loro dipendenti, anziché con gli azionisti. Purtroppo, bene che ne sia consapevole, serve solo a escludere la concorrenza, quei dipendenti che aspirano, prima o poi, a metter su il loro studio professionale. Avranno, purtroppo, vita ancora più dura: ritorno alle tariffe minime inderogabili, divieto di pubblicità, esami di ingresso ancora più difficili. Invece della partecipazione agli utili si sta promuovendo la cooptazione negli ordini da parte di chi un posto al sole, ce l’ha già.
Al posto delle promesse liberalizzazioni ci sono quindi solo le parole in libertà. Ne faremmo volentieri a meno. E francamente faremmo a meno anche di una legge sempre promessa e mai realizzata sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. Il motivo è che non c’è nessun legittimo impedimento a rendere i propri dipendenti partecipi dei profitti aziendali in Italia, anziché limitarsi a farli partecipare, spesso inconsapevolmente, ai fallimenti societari. Ma una cosa invece sì, ci sentiamo di chiederla a chi continua a prendere in giro milioni di lavoratori. Riducete il carico fiscale che grava sul lavoro, riequilibrando il gettito, in modo tale da spostarlo dal lavoro alle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, rivelandosi utile nel far aumentare la ricchezza di tutti.
Titto Boeri (lavoce.info)
La domanda avrebbe dovuto essere più difficile. Come si fa a difendere (ormai) la dignità del lavoro? Il nodo infatti sta tutto qui. La storia della democrazia occidentale ha due passaggi: quello delle libertà (di opinione, di associazione, di religione ecc. ecc.) e quello della sicurezza sociale. Il primo viene dalla Rivoluzione francese, il secondo dall’affermazione del movimento operaio e sindacale. Il primo è costato un sacco di morti, il secondo forse molto di più, ma in genere morti silenziose. Milioni di donne e di uomini che hanno rischiato la vita, la miseria, la galera, il licenziamento per essere rispettati sul luogo di lavoro ed avere dallo stato un sistema previdenziale e assistenziale, il cosiddetto “modello sociale europeo”.
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Alias – 1 maggio 2010
LAVORO AUTONOMO IN CRESCITA ANCHE SE COLPITO DALLA CRISI
Nella costellazione della precarietà, il lavoro autonomo non gode certo di buona salute, anche se è spesso il modo per evitare una disoccupazione di lunga durata. In assenza di politiche del lavoro, la sua unica possibilità per sopravvivere ai colpi della crisi è riappropriarsi delle risorse destinante alla formazione.
di Sergio Bologna
Nella provincia di Milano, la più ricca d’Italia (in termini di valore prodotto, non di reddito pro capite), secondo alcune statistiche recenti, riguardanti il primo semestre 2009, le assunzioni a termine avevano toccato punte dell’80%, portando l’incidenza di questa forma contrattuale al 56% dell’occupazione totale dipendente. Se a questo si aggiunge un 12% tra lavoro interinale e intermittente, risulta che nelle nuove assunzioni i lavoratori dipendenti con contratti a tempo indeterminato stanno sotto la soglia del 30%, ma di questi un quarto circa ha un contratto part time. Aggiungiamo le collaborazioni occasionali, cresciute del 30% nello stesso periodo, e mettiamoci su il dato impressionante che il 38,9% degli assunti a tempo indeterminato dopo 18 mesi ha cambiato lavoro – ed avremo un’idea, parziale ma non distorta, di quanto siamo diventati «flessibili». La precarietà, condizione tipica del lavoro autonomo e parasubordinato, si sta estendendo a macchia d’olio a tutti i rapporti di lavoro, quindi deve essere assunta come il punto di partenza di qualunque discorso sulla condizione umana oggi. Ma ci sono due sguardi completamente diversi sulla precarietà. Quello di chi la considera una condizione immanente al lavoro nel sistema capitalistico attuale e quello di chi la considera una condizione di transizione verso rapporti di lavoro stabili. Dei due il primo ha il merito di mettere in questione l’intero assetto del sistema ed in particolare il suo apparato previdenziale, l’altro rischia di essere semplicemente un’aspirazione ad avere un solo padrone tutta la vita. Per questo lo slogan «no al precariato» mi suona sempre più come uno slogan stupido. Diverso se il termine «precariato» assume un significato identitario. Ma con la crisi, che comincia solo ora a mordere davvero, le cose si complicano, da un lato la precarietà intesa come intermittenza dei rapporti di lavoro può diventare condizione accettabile se paragonata con la disoccupazione di lunga durata, dall’altro la mobilità può essere una forma di autodifesa. In Italia infine l’istituto della Cassa Integrazione crea una figura che altrove non esiste come fattispecie lavorativa, quella del cassaintegrato, lavoratore dipendente a tutti gli effetti… che non lavora. Per l’esercito di quelli che sono esclusi dalla Cassa Integrazione, lavoratori dipendenti delle microimprese, lavoratori autonomi, parasubordinati, i settori più vulnerabili del mercato del lavoro in periodo di crisi, sperare che lo Stato possa oggi venire incontro alle loro difficoltà è pia illusione. È più realistico pensare di arginare i continui tentativi dello Stato di peggiorare la condizione del lavoro in generale ed in particolare quella dei settori più vulnerabili. Tutte le grandi istituzioni, dal Fondo Monetario Internazionale all’Unione Europea (e di conseguenza anche i governi degli Stati che vi aderiscono) propongono una sola ricetta per uscire dalla crisi: fare «le riforme », cioè rendere più flessibile il mercato del lavoro e ridurre le erogazioni dello stato assistenziale. Qui si agisce, della cosiddetta flexicurity ancora si parla soltanto. Lo Stato ha rotto il vincolo di solidarietà verso i cittadini sin dai tempi di Ronald Reagan (Anni Settanta) e se Obama sembra aver invertito la tendenza con la sua riforma sanitaria, in Europa la strategia prevalente è ancora quella ultraliberista. Di redistribuzione dei redditi se ne parla sì, ma verso il basso, per esempio tra i precari dell’Unione e gli immigrati. In Italia nell’ultimo anno il 77% dei nuovi posti di lavoro è andato agli immigrati. Se questa cifra fosse stata sbandierata durante l’ultima campagna elettorale, la Lega avrebbe ottenuto il 30% dei consensi. Pertanto la coalizione, il mutuo soccorso, la costituzione di organismi che mettono al primo posto la tutela delle persone (e solo in subordine la rappresentanza) sono le uniche scelte sensate in questa situazione. Se il web può essere uno strumento potente per creare reti di conoscenza e di condivisione, va riscoperta e rivalutata la prossimità fisica, il dialogo diretto tra le persone. Su quali terreni costruire la coalizione? Primo e fondamentale deve essere il terreno dell’appropriazione e sviluppo della conoscenza. I sistemi di trasmissione delle conoscenze, gli apparati didattici, si sono andati deteriorando, dimostrando sempre più la loro inadeguatezza ad arginare l’urto che sui cervelli e sui sistemi di percezione produce il bombardamento mediatico. Si sono svalutati i sistemi di apprendimento che presuppongono spirito critico, e sono stati sostituiti con tecniche che agevolano atteggiamenti passivi. Il processo tuttavia è stato molto più profondo perché non è partito dalla riforma universitaria ma dal degrado interno delle discipline con una rapidità impressionante. Parlate con un docente universitario che abbia 20 anni di ruolo alle spalle, di economia o di storia, se non è un ebete vi dirà di essere inorridito da quel che scrivono le nuove leve in carriera, a cominciare dagli Stati Uniti. Del resto, a proposito degli economisti, basta leggere quanto alcuni illustri docenti della London School of Economics hanno scritto sul progressivo degrado della loro disciplina alla Regina Elisabetta, che aveva chiesto loro candidamente «comemai non avete previsto la crisi?». Ma il fronte di lotta va considerato in tutta la sua ampiezza, perché non è solo l’insegnamento universitario a dimostrare la sua inadeguatezza ad attrezzare i giovani al mercato del lavoro, c’è anche il sistema della formazione continua, della riqualificazione professionale, ad essere talmente inadeguato da indurre ormai vere e proprie strategie di resistenza, come suona il titolo di un libro (Widerstand gegen Weiterbildung) scritto da una bravissima insegnante dell’Università di Graz, Daniela Holzer. La partita della formazione permanente è forse oggi la più grossa partita che si gioca in Europa in termini di politiche attive del lavoro. Se vi chiedete quali sono le maggiori risorse monetarie che l’Unione Europea mette a disposizione del lavoro oggi la risposta è una sola: «la formazione». Ma chi se le intasca, queste risorse? Enti locali, sindacati e in parte l’Università. Dobbiamo riappropriarcene. Pensate a una professionista che lavora come freelance, ha una necessità costante di aggiornare le proprie conoscenze e si trova in questa situazione assurda: non ha i soldi per pagarsi l’aggiornamento che le serve e al tempo stesso è importunata da decine di istituti, enti e cooperative che le propongono prodotti formativi che non le servono. Se dovesse aprire un negoziato con un Ente locale, se dovesse tentare un’azione rivendicativa verso lo Stato, non le converrebbe forse cercare di riappropriarsi dei soldi destinati alla formazione? Per esempio chiedendo dei voucher che si spende come a lei pare, secondo le sue esigenze specifiche? Il sistema della formazione oggi è ancora un vecchio sistema fordista, che ricorda la frase «ti vendo l’auto che vuoi purché sia nera». Se a questo si aggiunge che la formazione venduta come riqualificazione professionale in molti casi è resa obbligatoria e diventa un sistema di vessazione e controllo dei disoccupati, allora si capisce che un’azione per riappropriarsi delle consistenti risorse destinate alla formazione può rappresentare una strategia di lungo periodo. L’autoformazione può essere impostata in primo luogo come una battaglia economica. Ma è solo un punto di partenza. Il degrado interno alle discipline impone che l’autoformazione debba per forza porsi l’obbiettivo di costruire un sistema di pensiero e non semplicemente un’organizzazione più razionale dell’apprendimento. «Economia della conoscenza» è una bella parola che nasconde in realtà un’operazione abbastanza volgare di mistificazione della realtà. Tuttavia delimita uno spazio, forse l’unico, dove possiamo costruirci strumenti di sopravvivenza e capacità di relazione a nostra misura. La conoscenza e il sistema di pensiero che la rende organizzata e fruibile, quindi scambiabile anche sul mercato sotto forma di competenza professionale, è l’unico spazio di libertà assoluta di cui possiamo godere, favorito oggi da un accesso diretto all’informazione che il web ti consente (se sai usarlo con accortezza). Se l’autoformazione punta in alto, a costruire sistemi di pensiero complessi, si rivela come l’unica strada per produrre innovazione dal basso. L’altra è quella dei grandi apparati tecnologico-militari. Chi ha avuto la fortuna di frequentare i militanti operai che hanno tenuto alta la tensione del conflitto industriale negli Anni Settanta ricorda come fossero persone che non andavano in giro a gridare slogan generici ed a lanciare parole d’ordine «unificanti» ma era gente che conosceva nei minimi dettagli la contrattualistica, oltre all’organizzazione del lavoro. Si muoveva sempre su cose concrete, immediate, su situazioni specifiche di reparto, sapevano leggere una busta paga senza che sfuggisse loro una virgola. Quanti lavoratori autonomi, quanti freelance, quanti ex collaboratori a progetto costretti a prendersi una partita Iva conoscono la loro situazione fiscale e previdenziale nei minimi dettagli? Ben pochi, anche tra quelli con anzianità di lavoro. Dal bisogno elementare di conoscere meglio il proprio status nasce lo spirito di coalizione, la necessità di confrontarsi coi colleghi, la disponibilità a una protesta collettiva, la rabbia di vedersi trattati come cittadini serie B quando si pensa che a fronte di versamenti allo Stato non c’è ritorno in termini di prestazione (anche su servizi universali come l’assistenza alla maternità). Chi scrive queste righe si è visto recapitare un giorno una raccomandata dell’Agenzia delle Entrate con la quale gli si comminava una sanzione per non aver pagato 14 (quattordici) euro. Pensate: un funzionario delle tasse italiano – cittadino di un Paese dove l’evasione fiscale è astronomica – perde una mattinata di lavoro per scoprire che il sottoscritto non ha pagato 14 euro. Che poi io le avessi pagate e si trattasse di un errore è cosa secondaria, più importante è il fatto che per dimostrare la mia «innocenza» avrei dovuto spendere più della multa che mi era stata inflitta, quindi ho pagato. Queste piccole odiose vessazioni sono all’ordine del giorno per i lavoratori autonomi di seconda generazione. Forse anche per questo – ma soprattutto perché si stanno appropriando di un sistema di pensiero che meglio di altri sa interpretare le dinamiche del postfordismo – i freelance hanno cominciato a organizzarsi per tutelare i propri diritti e la propria dignità di lavoratori. Qualcuno (la Lega per prima) ha cominciato a interessarsi di loro, Cgil e Cisl stanno rivedendo la loro posizione tradizionale sul lavoro autonomo, il Pd sta preparando uno Statuto – nessuno coglie appieno però la portata epocale della disintegrazione del ceto medio occidentale, che rappresenta la stragrande maggioranza di quelli che i sociologi chiamano «lavoratori della conoscenza». Dove porterà non lo so, né mi pare di vedere in giro gente che lo sappia, in realtà di saperlo non m’interessa un accidente. So soltanto che debbo difendermi per non esserne travolto ed ho bisogno, per farlo, degli altri, in particolare di quelli che vivono la mia stessa condizione lavorativa.
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