L’incontro che si è tenuto sabato 15 gennaio su precarietà formativa, lavoro cognitivo e saperi, al di là delle differenze e delle posizioni di partenza dei soggetti partecipanti (studenti, ricercatori, insegnanti, redattori, giornalisti e altri lavoratori e lavoratrici precarie del mondo della conoscenza), ha cercato di focalizzare il discorso su un piano il più possibile generale e unificante, sottolineando come la filiera produttiva del sapere contemporaneo parta precisamente dalla formazione e dall’università per giungere, sotto il comando stringente del capitale, alla condizione diffusa di precarietà lavorativa cognitiva/intellettuale, sottoposta scientificamente” alla frammentazione, al mancato riconoscimento del suo valore sociale, allo svilimento delle potenzialità emancipatrici dell’intelligenza collettiva (se solo potesse esprimersi liberamente, abbattendo i recinti economici della proprietà intellettuale e quelli ideologici della meritocrazia, della competizione, ecc.).
Il punto di vista precario cerca quindi di emergere con forza anche (e soprattutto) in un contesto dove vige all’ennesima potenza la legge del ricatto (occupazionale, baronale, esistenziale) e quella del consenso legato all’individualismo (l’illusione, cioè, di potersi far strada con le proprie capacità, di andare a svolgere una professione comunque prestigiosa, di essere alla fine ripagati di tutti i sacrifici fatti).
A questo proposito, in termini di pratiche, l’autoricerca è stata indicata come possibile modalità sperimentale di produzione di conoscenza in ambito accademico e non solo, capace di favorire un approccio multidisciplinare, egualitario e condiviso. E capace di svelare e neutralizzare, almeno in parte, i meccanismi di mistificazione della realtà che creano consenso. Gli studenti hanno a loro volta formulato la proposta di inaugurare una riflessione puntuale sui legami tra mondo della formazione universitaria e processi di inserimento lavorativo dei neolaureati, al fine di rimettere in discussione il senso complessivo della formazione stessa.
Naturalmente è stato sottolineato il fatto che per ricomporre il quadro della frammentazione dei saperi e dei lavoratori della conoscenza è necessario non tanto mettere da parte le specificità (che possono, anzi devono continuare ad essere la base di partenza per lotte e rivendicazioni di tipo settoriale/sindacale), quanto iniziare a muoversi contemporaneamente su un piano generale, che dal punto di vista economico metta al centro lotte unitarie contro quelli che oggi sono per così dire gli “utlizzatori finali” e gli espropriatori della ricchezza (economica e conoscitiva) prodotta singolarmente e collettivamente (di qui la richiesta della continuità di reddito e di un nuovo welfare come strumenti per svincolarsi dal ricatto immediato del bisogno e come mezzo
per poter dedicare tempo ed energie alla costruzione di luoghi di confronto e di sapere alternativi, liberi); e che da un punto di vista “politico” metta al centro della questione la produzione di saperi (scienza, cultura, ricerca, ecc.) autonomi e condivisi, di cui si rivendichi il controllo delle finalità e delle ricadute sull’intera
società: e quindi, per quali fini si studia e si fa cultura/ricerca, quali sono le priorità vere da perseguire, a quali bisogni sociali si vuole dare una risposta, come si ripartisce in modo equo la ricchezza così prodotta.
Ragionando in questi termini si è cercato di mettere in luce, al di là delle specificità che caratterizzano ciascuna condizione, i tratti comuni del lavoro cognitivo odierno. Si tratta anzitutto di riconoscere
e di opporsi al processo di privatizzazione dei saperi che crea una forte disuguaglianza nelle possibilità di accesso e di utilizzo. La conoscenza collettiva, in larga parte prodotta oggi da lavoratori e lavoratrici precarie, non solo viene espropriata e ridotta a pura merce, ma viene anche usata come forma di potere (simbolico, economico e politico) sugli stessi lavoratori e sull’intera società: è quindi necessario recuperare la tradizione del sapere libero, e le esperienze di libero accesso alla conoscenza nate per esempio all’interno della
cultura hacker (si pensi alla battaglia contro il copyright, alle licenze creative commons o all’impegno costante nella ricerca indipendente). Altra consapevolezza emersa dal confronto ha riguardato l’uso dei media: si è accennato, da un lato, alla necessità di una maggiore riflessività nell’utilizzo delle piattaforme commerciali di
comunicazione (primi fra tutti i social network) e, dall’altro, si è sottolineata l’esigenza di una riappropriazione dal basso delle tecnologie della comunicazione, per creare spazi e strumenti di condivisione veramente autonomi e liberi.
In questo quadro, infine, si è cercato anche di rilanciare il Manifesto e la Carta dei diritti dei lavoratori della conoscenza, che rappresentano un primo momento di sintesi e di prospettiva per tutti coloro (compresi gli studenti: futuri precari) che in un modo o nell’altro si guadagnano da vivere mettendo a lavoro le proprie facoltà cognitive, affettive e relazionali: guarda caso le stesse facoltà umane sulle quali prospera, come una sanguisuga, il biocapitalismo.
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