Sblilanciamoci.info – 2 luglio 2013
All’introduzione di un reddito di base dovrebbe accompagnarsi quella di un salario minimo. Pubblichiamo un testo estratto dall’ultimo libro di Andrea Fumagalli, “Lavoro male comune”
Perché le forze sindacali e non liberiste (queste ultime più propense allo smantellamento e alla privatizzazione di ogni intervento di welfare) sono perplesse e poco propense a inserire misure di reddito di base incondizionato nel proprio programma di governo. Che la proposta di un welfare fondato su un unico intervento di sostegno al reddito venga ritenuta politicamente inaccettabile dalla classe imprenditoriale non stupisce più di tanto, anche se, (….), garantire un reddito stabile aiuterebbe la crescita della produttività e della domanda di consumo (quindi, in ultima analisi, anche del profitto). Il vero problema è che una regolazione salariale basata sulla proposta di reddito di base incondizionato (magari unita a un processo di accumulazione fondato sulla libera e produttiva circolazione dei saperi) mina alla base la stessa natura del sistema capitalista, ovvero la necessità del lavoro e la ricattabilità di reddito come strumento di dominio e controllo, oltre alla violazione del principio di proprietà privata dei mezzi di produzione (ieri le macchine, oggi la conoscenza).
Se il diritto al lavoro viene sostituito dal diritto alla scelta del lavoro, la maggior libertà che ne consegue può assumere connotati eversivi e potenzialmente sovversivi.
La posizione contraria a qualsiasi proposta di reddito di base da parte dei sindacati deriva invece da due principali fattori: da un lato, buona parte del sindacato italiano (non solo quello confederale ma anche quello di base) è ancora fortemente imbevuta dell’etica del lavoro e accetta difficilmente di dare un reddito a chi non lavora, soprattutto se incondizionato e non finalizzato all’inserimento lavorativo; dall’altro, viene visto con preoccupazione il fatto che il reddito di base possa influire negativamente sulla dinamica salariale (effetto sostituzione) e ridurre gli ammortizzatori sociali.
Riguardo al primo punto, la posizione dei sindacati, non dissimile da quella delle controparti, rispecchia il ritardo – sia culturale sia politico – con cui le forze sociali prendono atto dei cambiamenti intervenuti nel passaggio dal capitalismo fordista al biocapitalismo cognitivo. L’idea che bisogna guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte rispecchia proprio quell’ideologia del lavoro di cui abbiamo discusso nel primo capitolo, sino a declinarsi nella “falsa” parole d’ordine di “lavoro bene comune”.
Il secondo punto pone invece una questione più importante. Il rischio che l’introduzione di un reddito di base possa indurre una riduzione dei salari è effettivamente reale. Per questo una simile misura deve essere accompagnata dall’introduzione in Italia di una legge che istituisca il salario minimo, ovvero stabilisca che un’ora di lavoro non può essere pagata meno di una certa cifra, a prescindere dal lavoro effettuato. Inoltre, occorre anche considerare che la garanzia di reddito diminuisce la ricattabilità individuale, la dipendenza, il senso di impotenza di lavoratori e lavoratrici nei confronti delle imprese. Richiedere un reddito minimo è la premessa perché i precari, i disoccupati e i lavoratori con basso salario possano sviluppare conflitto sui luoghi di lavoro. Oggi il ricatto del licenziamento o del mancato rinnovo del contratto, senza nessun tipo di tutela, è troppo forte. Il reddito, unito a garanzie contrattuali dignitose e a un salario minimo, renderebbe tutti meno ricattabili e quindi più forti. E permetterebbe di chiedere il miglioramento delle proprie condizioni lavorative e contrattuali.
Infine, in tema di ammortizzatori sociali, è necessario prendere atto che attualmente essi sono del tutto inadeguati e iniqui. Ad esempio, solo un quarto di chi è realmente disoccupato possiede i requisiti per accedere al sussidio di disoccupazione: ovvero, avere lavorato 52 settimane negli ultimi due anni e aver pagato i relativi contributi. Tali parametri sono diventati un lusso che la maggior parte dei lavoratori precari non è in grado di garantire. L’indennità di mobilità viene invece applicata solo ai lavoratori che escono da una situazione di cassa integrazione.
A sua volta, le diverse forme di cassa integrazione esistenti (ordinaria, straordinaria e in deroga) sono applicate in modo diverso e selettivo a seconda del settore dell’impresa, della dimensione, delle qualifiche, con l’effetto di creare pesanti discriminazioni sul suo utilizzo. Immaginare un unico ammortizzatore sociale a carico della fiscalità collettiva, uguale per tutti, che vada progressivamente a sostituire quelli vecchi, sembra ragionevole, anche perché consentirebbe di ridurre quel cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dai contributi sociali a favore di un maggiore salario in busta paga.
Riassumendo, la proposta di un reddito di base incondizionato come strumento di remunerazione di quella produzione sociale e valorizzante che oggi sfugge alla regolamentazione del lavoro si fonda su quattro parametri non emendabili. Il primo requisito è l’individualità, dal momento che il lavoro è tendenzialmente individuale, anche se poi fa riferimento a una cooperazione sociale e a beni comuni come la conoscenza.
Il secondo parametro è la garanzia di continuità nella distribuzione del reddito, che deve essere erogato a tutti coloro che operano in un territorio, a prescindere dalla cittadinanza, dal sesso, dalla religione. Il tema della residenzialità è delicato, perché fa riferimento al concetto di cittadinanza, fondato sull’idea di ius soli o ius sanguinis. In Italia e in buona parte d’Europa il concetto di cittadinanza è fondato sullo ius sanguinis, per cui un figlio di immigrati nato in Italia non ha automaticamente la cittadinanza italiana in quanto il diritto di sangue prevale sul diritto di suolo. Ne consegue che il requisito della cittadinanza deve essere sostituito da quello della residenzialità.
Il terzo parametro è quello dell’incondizionalità: garantire continuità di reddito significa garantire continuità di remunerazione di un’attività produttiva (diretta o indiretta che sia) di ricchezza già svolta e quindi non richiede in cambio alcuna ulteriore contropartita. Garantire continuità di reddito a prescindere dalla condizione lavorativa non è quindi una misura assistenziale. Il quarto parametro consiste nel finanziamento del reddito di esistenza sulla base della fiscalità sociale progressiva (cioè un aumento dell’aliquota al crescere dello scaglione di reddito).
È questo il punto principale, poiché dalle forme di finanziamento dipende la natura compatibile o non compatibile del reddito di esistenza in un ambito di capitalismo cognitivo. A partire dal 2012, su questi temi si è sviluppata in Italia una campagna dal basso che raccolto le 50.000 firme necessarie per portare in parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare a favore dell’introduzione di un reddito minimo garantito.
Si tratta di un risultato non scontato nell’attuale situazione politico-culturale dell’Italia e che fa ben sperare per il futuro.
Di fatto ciò significherebbe modificare l’art. 1 della costituzione italiana. Non più «l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro», bensì: l’Italia è una repubblica fondata sul diritto di scelta del lavoro.
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