Precarietà a vita per legge

Il disegno di legge 14441 quater B, cd “collegato lavoro”, è stato approvato alla camera in seconda lettura lo scorso 28 gennaio 2010 ed è attualmente in commissione al Senato per la propria seconda ed ultima lettura. Essendo le modifiche apportate dai Deputati assai modeste rispetto al testo già licenziato dal Senato lo scorso 26 novembre 2009, è davvero prevedibile la sua imminente approvazione.
Al di là quelli che saranno gli effettivi esiti interpretativi dello stesso (ma non si può continuare a sperare per sempre nella sola tenuta della magistratura), l’intenzione della maggioranza parlamentare che lo emana è chiarissima. In esso vi sono molte norme di arretramento e risubordinazione integrale dei tempi di vita dei lavoratori che vengono definitivamente sussunte nell’agire d’impresa (con l’ulteriore flessibilizzazione degli orari e pesanti restringimenti in termine di aspettative, congedi e riduzione d’orario per attività di cura), di ulteriore svalorizzazione e impoverimento del pubblico impiego, nonché l’odioso ordine di limitare il vaglio giudiziale alla sola regolarità formale dell’esercizio datoriale dei propri poteri nel rapporto prescindendo da qualsivoglia verifica dei fatti sottostanti. Ma i punti davvero qualificanti – addirittura un manifesto ideologico – del disegno di legge sono due.

Il primo attiene alla decisione di “ridurre il contenzioso in materia di lavoro” (art. 75) per il tramite dell’introduzione della clausola compromissoria ad arbitrato certificata che si afferma non revocabile (con definitiva impossibilità, cioè, di adire la magistratura), certificabile anche retroattivamente rispetto a diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore e anche futura rispetto a contratti non ancora stipulati, e comunque con spese degli arbitri a carico del lavoratore. Il secondo è l’eternizzazione di ogni forma di precariato. Ciò avviene dapprima imponendo a tutti i precari (contratti a termine, lavoratori somministrati, co.co.pro) un termine decadenziale di 60 giorni dalla scadenza del contratto per impugnarlo. Tale termine, per altro, si applica anche ai rapporti già cessati (inclusi quelli stipulati anteriormente al 2001 in base alla previgente legge 230/62) avendo i precari – compresi quelli che a tutt’oggi hanno un rapporto in corso di effetto con il datore e legittimamente sperano nell’agognata stabilizzazione – l’onere di impugnare tutti i precedenti contratti degli scorsi decenni nei 60 giorni dall’approvazione della legge. Ciò, nell’assordante silenzio della stampa e delle organizzazioni sindacali al riguardo, nulla è quindi se non un immenso condono tombale gratuito per tutti gli abusi compiuti nel ricorso al lavoro precario sino ad oggi. A tale primo onere decadenziale, altresì, se ne aggiunge un secondo di 180 giorni per l’avvio dell’azione giudiziaria nell’esplicito auspicio che laddove non sia il precario ad essere incorso in decadenza lo sia l’organizzazione sindacale a cui si è rivolto con i suoi avvocati, prevedibilmente affogati dalla mancanza di una norma di progressivo raccordo tra la vecchia e la nuova disciplina. A ciò si aggiunge infine la previsione che qualsivoglia violazione alle norme imperative di legge non condurrà più al rimedio previsto dal diritto comune che si applica a qualsiasi cittadino, ovverosia la nullità parziale e la supremazia dell’accordo dissimulato su quello simulato con conseguente stabilizzazione del rapporto in capo al reale datore di lavoro, ma (per i soli precari) si prevede esclusivamente un risarcimento del danno nella misura compre tra 2,5 mensilità ed 11 a prescindere da qualsivoglia requisito dimensionale dell’azienda, applicandosi esso sia ad una multinazionale che ad un’impresa individuale con unico dipendente. E, per altro “in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità ..è ridotto alla metà” (art. 36, comma VI).

Il necessario punto di caduta del combinato disposto di tali previsioni, e comunque e certamente l’esplicito intento dei suggeritori della normativa, è che l’obbligo di impugnare entro 60 giorni dalla cessazione del rapporto i contratti a termine o co.co.pro o di lavoro interinale, renderà impossibile giustiziare tutti quei casi (e cioè praticamente tutti) ove il lavoratore speri nella richiamata in servizio che avviene solitamente con intervalli maggiori a tale termine. Ed infatti se a ciò si aggiunge che in caso di vittoria non si potrà più avere la stabilizzazione ma solo alcune mensilità, se ne evince l’assoluta irragionevolezza per il lavoratore di impugnare nei 60 giorni successivi alla scadenza del termine perdendo il posto ancorché precario e rinunciando definitivamente alla aspettativa di essere richiamati in servizio, e l’assoluta irragionevolezza per i datori di assumere a tempo indeterminato essendo i “vecchi” ancora tutelati dall’art. 18 S.L. (con effetti ripristinatori e risarcitori reali) mentre i precari liquidabili, nei rari casi in cui non incappassero nella doppia decadenza o nella clausola compromissoria preventiva ed irrevocabile, con piccolissime somme.
La normativa si pone ovviamente in aperto contrasto con l’Europa. Ed infatti:

a) la Carta di Nizza prevede il dovere degli Stati membri dell’Unione di “promuovere l’applicazione e rendere effettivo l’esercizio dei diritti” (art. 51,1) sociali e al lavoro ed in particolare quello relativo “alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato” (art. 30);
b) la Direttiva 1999/70/CE prevede l’obbligo per il legislatore nazionale di “creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine” che invece da oggi non potrà più essere giustiziata trovandosi il precario innanzi all’alternativa tra impugnare il primo singolo contratto (perdendo ovviamente sia il posto che ogni speranza di essere richiamato) o proseguire nel rapporto precario decadendo da qualsivoglia tutela per l’avvenuta illecita successione (ad eccezione della davvero improbabile violazione dell’obbligo di non superare il limite di 36 mesi alle dipendenze dello stesso datore);c) l’Art. 6 della CEDU prevede che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”, precetto ugualmente violato dagli impossibili termini decadenziali e dalla clausola compromissoria preventiva ed irrevocabile.

Ed ugualmente il disegno di legge 1441 si pone in contrasto con i nostri precetti costituzionali avendo già chiarito la Corte Costituzionale la necessaria “effettività” della sanzione rispetto all’abuso e, con la sentenza n. 214 del 2009, l’incostituzionalità di una normativa che preveda come “situazioni di fatto identiche” (nel presente caso la scelta datoriale ingiusta o discriminatoria di far cessare il rapporto di un precario rispetto a quella di far cessare il rapporto di un “fisso”, potenzialmente con stesse mansioni e anzianità di servizio) “risultino destinatarie di discipline sostanziali diverse” e comunque la non conformità a costituzione di qualsivoglia onere di attivazione del lavoratore in corso di rapporto (categoria a cui certo deve considerarsi appartenente il lavoratore con contratto a termine nullo nei 60 giorni dopo l’interruzione di fatto del rapporto e nell’aspettativa del suo imminente ripristino). Ma questo attiene al conflitto giudiziario che seguirà tale norma, che non ridurrà certo il contenzioso ma solo renderà difficilissima la giustiziabilità dei diritti. Ciò che ora va fatta è invece una rapida disamina delle politiche del lavoro di questa
maggioranza di governo. Come sa bene chi segue i lavori del BIN, l’Italia è rimasto l’unico paese in Europa a non avere già approvata o in discussione su proposta della maggioranza una legge sul reddito. Ciò che si intende fare con il disegno di legge 1441 è il tentativo di portare un definitivo attacco “generazionale” all’unica forma di reddito di cittadinanza sussistente ed ereditata dal novecento: il lavoro e il salario. Al riguardo va ricordato come il lavoro precario nella sua grandissima parte riguardi i giovani (e nella porzione residua per lo più il lavoro femminile e migrante) e che su essi graverà sostanzialmente anche il peso della clausola compromissoria, avendo i “fissi” adeguati
strumenti per sottrarsi al necessario consenso coatto alla sua stipula.
Ciò detto la scelta di rendere il precariato l’unica ed ingiustiziabile forma futura di miserabile arruolamento al lavoro e al reddito nell’assenza di qualsivoglia introduzione di forme di welfare per tali categorie, è la precisa scelta di costringere la generazione dei ventenni e dei quarantenni (e le donne e i migranti) a pagare il conto dei sessantenni ed ottantenni bianchi e maschi oggi al potere. Gli istituti di tutela del precariato nacquero quale presidio contro “le incertezze e l’abuso” (si veda la relazione parlamentare alla legge 230 del 1962). E’ davvero urgentissima una grande battaglia per affermare che tutte le incertezze (anche quelle generate dai sogni e dalle ambizioni) devono essere tutelate con il reddito di cittadinanza e tutti gli abusi repressi con la massima fermezza e con effetti ripristinatori e reali “davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”, o almeno io proprio questo vedo nella battaglia per il basic income.

di Carlo Guglielmi (Bin-Italia)

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