da Il Manifesto – 20 giugno 2012
«Chi, come Stefano Fassina, sostiene che nel ddl sia stata conservata la ‘reintegra’ sul posto di lavoro, non dice assolutamente la verità».
Sostenere, come ha fatto il responsabile economico del PD Stefano Fassina, che nel disegno di legge uscito dal Senato il 31 maggio scorso è stato reintrodotto il diritto alla reintegra per i licenziamenti economici non corrisponde assolutamente a verità.
Il diritto alla reintegra, così come stabilito dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, prevede che il lavoratore abbia diritto a riprendere il suo posto di lavoro come se il licenziamento non fosse mai intervenuto; e quindi ha diritto a percepire tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento all’effettiva reintegra (c.d. tutela reale).
Il comma 42 dell’art. 1 del d.d.l. in discussione alla Camera riscrive l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevedendo che «il Giudice (nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo) dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria». Dunque non è smentibile che anche nell’ipotesi in cui il licenziamento economico sia illegittimo il lavoratore non avrà più diritto alla reintegra, ma soltanto ad un’indennità. Quelli come Fassina si riferiscono forse all’ipotesi in cui il Giudice accerti «la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»? Ma anche in tale ipotesi quello che viene presentato come reintegrazione nel posto di lavoro, tale non è, nel senso che attraverso uno «sporco» gioco di parole si dà il nome di reintegra ad una fattispecie che della reintegra non ha più nulla. Esattamente come quando a Polifemo fu detto che a causargli la cecità era stato «Nessuno». Ed infatti, la «reintegra» prevista dal comma 4 del nuovo art. 18 stabilisce sì la «ricostituzione del rapporto di lavoro», ma senza più la previsione del diritto del lavoratore a percepire tutte le retribuzioni perse dal momento del licenziamento all’effettiva reintegra. La lingua biforcuta del novello legislatore, infatti, ha stabilito che «in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a 12 mensilità».
Dunque, il lavoratore, anche nell’ipotesi in cui riesca a dimostrare «la manifesta insussistenza» del fatto posto alla base del licenziamento (se un fatto è insussistente già di per sé, perché aggiungere l’aggettivo «manifesta», se non per aggravare l’onere probatorio del lavoratore?) difficilmente otterrà l’ordine di reintegra prima che sia decorso un anno dall’intimazione del licenziamento. Viene cioè posto a carico del lavoratore il «costo» della durata del processo di primo grado; senza contare che è praticamente impossibile che nel giro di poco si arrivi ad una sentenza della Corte d’Appello o della Cassazione.
Visto dal lato del lavoratore significa che egli – pur nella «eccezionale ipotesi» di vedersi riconosciuta la «manifesta insussistenza» da un giudice nei tre gradi di gidizio – sa già che dovrà restare per molti anni senza reddito e senza poterlo recuperare, inducendolo quindi a rinunciare al suo diritto alla «reintegrazione possibile» in cambio di una monetizzazione rapida della rinuncia al ricorso, a fronte dell’esiguità del beneficio economico che gli deriverebbe anche in caso di esito positivo. Detto in parole più semplici: se un lavoratore sa che mediamente potrebbe ottenere un sentenza di reintegra nel giro di due o tre anni, deve sapere anche che il datore di lavoro al massimo sarà condannato a pagargli 12 mensilità; e lui non avrà risarciti gli altri due in cui è rimasto in attesa della sentenza favorevole.
Di più. Il nuovo art. 18, comma 4, prevede che va «dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di un nuova occupazione». In conclusione, il lavoratore licenziato ingiustamente deve mettere in conto: da un lato che per tre anni (come dato medio probabilistico di successo giudiziario definitivo) non avrà la sentenza di reintegra, resterà senza lavoro e dovrà dedurre quanto percepito nell’attesa di giustizia attraverso un’altra attività (a quel punto necessaria per sopravvivere fino alla sentenza); dall’altro l’indennità risarcitoria massima che potrà spuntare sarà di dodici mensilità. E allora che Giustizia è mai quella che, riconoscendo a distanza di due o tre anni il diritto alla reintegra, prevede per il lavoratore un risarcimento di poche migliaia di euro a fronte di una perdita di decine di migliaia di euro?
Stefano Fassina e quelli come lui continuano a chiamare reintegra ciò che reintegra non è e se non mentono a sé stessi mentono certamente ai lavoratori.
Il diritto alla reintegra, così come stabilito dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, prevede che il lavoratore abbia diritto a riprendere il suo posto di lavoro come se il licenziamento non fosse mai intervenuto; e quindi ha diritto a percepire tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento all’effettiva reintegra (c.d. tutela reale).
Il comma 42 dell’art. 1 del d.d.l. in discussione alla Camera riscrive l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevedendo che «il Giudice (nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo) dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria». Dunque non è smentibile che anche nell’ipotesi in cui il licenziamento economico sia illegittimo il lavoratore non avrà più diritto alla reintegra, ma soltanto ad un’indennità. Quelli come Fassina si riferiscono forse all’ipotesi in cui il Giudice accerti «la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»? Ma anche in tale ipotesi quello che viene presentato come reintegrazione nel posto di lavoro, tale non è, nel senso che attraverso uno «sporco» gioco di parole si dà il nome di reintegra ad una fattispecie che della reintegra non ha più nulla. Esattamente come quando a Polifemo fu detto che a causargli la cecità era stato «Nessuno». Ed infatti, la «reintegra» prevista dal comma 4 del nuovo art. 18 stabilisce sì la «ricostituzione del rapporto di lavoro», ma senza più la previsione del diritto del lavoratore a percepire tutte le retribuzioni perse dal momento del licenziamento all’effettiva reintegra. La lingua biforcuta del novello legislatore, infatti, ha stabilito che «in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a 12 mensilità».
Dunque, il lavoratore, anche nell’ipotesi in cui riesca a dimostrare «la manifesta insussistenza» del fatto posto alla base del licenziamento (se un fatto è insussistente già di per sé, perché aggiungere l’aggettivo «manifesta», se non per aggravare l’onere probatorio del lavoratore?) difficilmente otterrà l’ordine di reintegra prima che sia decorso un anno dall’intimazione del licenziamento. Viene cioè posto a carico del lavoratore il «costo» della durata del processo di primo grado; senza contare che è praticamente impossibile che nel giro di poco si arrivi ad una sentenza della Corte d’Appello o della Cassazione.
Visto dal lato del lavoratore significa che egli – pur nella «eccezionale ipotesi» di vedersi riconosciuta la «manifesta insussistenza» da un giudice nei tre gradi di gidizio – sa già che dovrà restare per molti anni senza reddito e senza poterlo recuperare, inducendolo quindi a rinunciare al suo diritto alla «reintegrazione possibile» in cambio di una monetizzazione rapida della rinuncia al ricorso, a fronte dell’esiguità del beneficio economico che gli deriverebbe anche in caso di esito positivo. Detto in parole più semplici: se un lavoratore sa che mediamente potrebbe ottenere un sentenza di reintegra nel giro di due o tre anni, deve sapere anche che il datore di lavoro al massimo sarà condannato a pagargli 12 mensilità; e lui non avrà risarciti gli altri due in cui è rimasto in attesa della sentenza favorevole.
Di più. Il nuovo art. 18, comma 4, prevede che va «dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di un nuova occupazione». In conclusione, il lavoratore licenziato ingiustamente deve mettere in conto: da un lato che per tre anni (come dato medio probabilistico di successo giudiziario definitivo) non avrà la sentenza di reintegra, resterà senza lavoro e dovrà dedurre quanto percepito nell’attesa di giustizia attraverso un’altra attività (a quel punto necessaria per sopravvivere fino alla sentenza); dall’altro l’indennità risarcitoria massima che potrà spuntare sarà di dodici mensilità. E allora che Giustizia è mai quella che, riconoscendo a distanza di due o tre anni il diritto alla reintegra, prevede per il lavoratore un risarcimento di poche migliaia di euro a fronte di una perdita di decine di migliaia di euro?
Stefano Fassina e quelli come lui continuano a chiamare reintegra ciò che reintegra non è e se non mentono a sé stessi mentono certamente ai lavoratori.
di Antonio Di Stasi
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