Su Mente & cervello di questo mese l’apoteosi delle sfighe: pare che vivere da precari non faccia per niente bene al corpo e alla mente. O almeno non quanto essere un dirigente d’azienda… Ecco un breve estratto:
Stipendi da fame, qualifiche incerte, poche tutele
e soprattutto l’impossibilità di programmare il proprio futuro: che
cosa significa vivere da precari e quali sono le conseguenze di una
condizione sempre più diffusa sulla salute del corpo e della mente.
Quando va bene guadagnano mille euro al mese o poco più, tirano avanti
con contratti a progetto e confidano nei cambiamenti futuri. Quando va
male sbarcano il lunario grazie a lavoretti confermati di mese in mese,
vivono a casa di mamma a tempo indeterminato e campano senza
prospettive né ambizioni. Con un’unica certezza: essere destinati a un
avvenire più nero della generazione che li ha preceduti.
Vivono
così moltissimi lavoratori atipici, un esercito di 3,5 milioni di
persone solo in Italia che rappresenta il 15 per cento degli occupati,
secondo gli ultimi rilevamenti dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo
della formazione professionale dei lavoratori. Sono interinali,
impiegati a termine, collaboratori, turnisti, part-time, stagionali e
parasubordinati, uniti sotto il segno dell’instabilità.
Questo
comune denominatore – che riguarda l’operatore di call center e
l’operaio, il ricercatore e l’infermiere, la commessa e l’impiegato –
ha una doppia faccia. Per alcuni l’incertezza del lavoro atipico è un
trampolino di lancio, un motore per la crescita professionale, uno
stimolo a fare meglio: stando alla fotografia scattata dall’Isfol, il
28 per cento degli atipici ritiene il precariato una fase di passaggio.
Ma la maggior parte dei lavoratori vede la precarietà come una minaccia
che si può trasformare in una morsa in cui resta schiacciata l’intera
esistenza.
Di Daniela Cipolloni e Mauro Scanu
Leave a Reply