La Repubblica – 8 dicembre 2010
Ha ragione Mario Adinolfi a  ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani  senza futuro o d’una sola generazione depredata. Un trentasettenne  precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere  riconosciuto (questa l’etimologia di precario) è lo scandalo che vien  mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a  preparare prima l’età matura, poi l’anziana. I nati dopo il ’70 sono la  metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che  della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti.  Che s’imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come  denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington  University di St Louis (Il Fatto, 11 novembre).
Lavorare gratis è  una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire  all’estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento  reciproco fra l’Italia che ha un posto e l’Italia che ha semplici  attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta  volontariamente, consapevoli d’essere immersi nella Necessità: dare il  proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di “accumulare  punti”. Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli  occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s’è fatto  banale: è un’usanza dettata dal principe (un bando dell’autorità). È la  morale del tempo presente.
Se    questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una  miccia  –  così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica  –  che ha acceso  risentimenti acuti, non limitati all’istruzione che pure è “crocevia  nella vita” d’ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a  occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger  l’essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela,  provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto:  essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non  bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos’altro è in  gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e  il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.
In  tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente.  Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre.  Basandosi su ricerche dell’Istat e del Center for Research on Pensions  and Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà  d’Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta  andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei  compensi degli ultimi anni.
 Non così il precario nato dopo il ’70: la  percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione,  riceverà  –  se avrà lavorato 32 anni su 40  –  340 euro al mese. Duro  in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo  sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch’essi.
I  rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che  mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il  titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la  mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei  libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray,  che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean  ingaggia coi compagni: vince chi guida l’auto sino all’orlo del burrone,  tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un  vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a  morire, quando sei attaccato a un tubo senz’averlo deciso.
Il  chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona  molto sul Web  –  l’agora di queste generazioni  –  ma poco sui  giornali. C’è una complicità tacita, che impedisce alla verità d’esser  disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o  gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella  Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei  pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa  –  sulla crescita  che nei paesi sviluppati s’abbasserà stabilmente, sul clima da  proteggere, sullo Stato impoverito  –  questo qualcosa dovrà implicare  nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio.  Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per  dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l’istruzione, il patto  bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini).  L’accordo non va cercato tra partiti ma tra l’Italia che è nello Stato  sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c’è  bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici)  che queste cose le guardino in faccia.
Anche il popolo del  disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste  crudamente: “Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete  scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non  altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare”. Il  risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla  riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non  invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo  universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita  squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.
Si  disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei  focolari paterni o materni: secondo l’Istat, il 68 per cento vive coi  genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la  famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista  psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus,  direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una  generazione diversa: ricorda gli anni ’40. Non una conflagrazione  militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta,  dell’economia, è un’esperienza interiore di guerra: “È una sfida, quella  odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente  vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica  differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma  di mantenere in vita il Welfare”. Pur rispettando i conti, oggi esistono  cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La  distruzione non è più creativa.
Fu così anche nel 1942, quando il  Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano  di William Beveridge. “È proprio adesso, con la guerra che tende a  eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta  l’occasione. (…) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il  momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici  rattoppi” (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).
Molti  si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di  Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista  parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha  dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei  salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l’ignoranza.  Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: “Se un uomo  a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un  fallito”. Nemmeno gli avversari del ’68 usavano aggettivi simili.
Negli  italiani è stata svegliata nell’ultimo decennio, e nutrita,  ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il  socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l’attacco di Goebbels ai  socialdemocratici-partito dei disertori: “Tutta la propaganda  nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore  (Schweinehund) che abita ciascun uomo”.
di BARBARA SPINELLI