La vera novità storica del cosiddetto decreto Ronchi, puntualmente convertito con la fiducia lo scorso novembre, sta nel rendere obbligatorio quanto fino a quel momento era solo possibile. Purtroppo era possibile già da tempo gestire l’acqua tramite società private. Diversi comuni italiani già lo fanno (Arezzo, Agrigento), e da tempo le loro popolazioni sperimentano quanto la ricerca del profitto abbia come conseguenza certa la riduzione degli investimenti (Autostrade Benetton docet).
Interessante osservare come la retorica (ipocrita) dominante presso quanti sostengono la privatizzazione sia proprio quella secondo cui il privato può trovare i famosi 60 miliardi che sarebbero necessari per migliorare il sistema degli acquedotti in Italia. I fatti provano il contrario.
La seconda grande ipocrisia che accompagna questa vicenda la si ritrova nella posizione di quanti sostengono (molti purtroppo ancora nel Pd) che anche con il decreto Ronchi l’acqua resta pubblica e che ad essere privatizzato è il servizio, non il bene. Qui occorre essere molto chiari. L’acqua è un bene essenziale per noi umani soprattutto in quanto potabile. La potabilizzazione e il trasporto dell’acqua sono servizi strutturalmente collegati al suo stesso valore d’uso, determinandolo in larghissima parte (quasi interamente in zone piovose). Nell’attuale fase dell’antropizzazione, soprattutto cittadina, l’acqua potabile allo stato naturale è un fenomeno di importanza trascurabile. Ciò che conferisce “valore” anche economico all’acqua è la possibilità di essere bevuta o utilizzata per usi domestici (tralascio quelli industriali o agricoli, in cui la potabilizzazione non è necessaria), cosa che richiede il suo trasporto. Nel caso dell’acqua potabile questo può avvenire o tramite acquedotto o successivamente all’imbottigliamento. Dal punto di vista ecologico, il primo sistema è del tutto sostenibile, mentre il secondo non lo è. Un acquedotto che perde non fa che restituire acqua alla terra, producendo esternalità positive (una piantina nascerà). Un camion che trasporta acqua imbottigliata inquina e produce rischi, e a seguito della consumazione la bottiglietta dovrà essere smaltita con altro inquinamento.
Un sistema attento all’interesse pubblico e all’ecologia favorisce il consumo di acqua trasportata tramite acquedotto e scoraggia l’imbottigliamento. In Italia andiamo esattamente nel senso opposto: le concessioni idriche (come del resto quasi tutte le concessioni su beni pubblici) sono date quasi gratis, con margini enormi per chi imbottiglia privatamente. Forse che il fatto che l’acqua di sorgente sia tecnicamente pubblica (cioè parte del demanio idrico) rende meno privato il profitto enorme di Ferrarelle, Lete, Levissima, Evian etc. (testimoniato fra l’altro dalle grandi spese in pubblicità)?
Il ragionamento di chi sostiene che il servizio può essere privatizzato purché il bene resti pubblico non potrebbe che dare una risposta assurda a questo interrogativo retorico. La verità è che gli stessi gruppi che già gestiscono privatamente l’acqua imbottigliata sono interessati ad entrare nel business della gestione privatizzata degli acquedotti. Se il referendum “sì acquapubblica” non dovesse avere successo lo faranno ad un prezzo stracciato (proprio come quello che già pagano per le concessioni) perché col decreto Ronchi hanno ottenuto che tutte le quote di partecipazione andranno sul mercato nello stesso momento e quindi il prezzo crollerà. Ancora una volta il pubblico è costretto a svendere per legge. Naturalmente questi soggetti avranno tutto l’interesse a che l’acqua del rubinetto sia pessima, in modo da vendere le loro bottiglie di plastica, magari saccheggiando poi soldi pubblici anche per lo smaltimento. Tutto ciò è perfettamente possibile anche mantenendo la proprietà pubblica sul bene e privatizzando solo il servizio connesso, con buona pace di quanti ritengono sufficiente lo statuto pubblico del bene e non quello del servizio.
La Commissione Rodotà aveva affrontato questi particolari problemi legati all’acqua e aveva concluso la sua proposta di legge delega classificandola, proprio nel cuore del Codice civile, non già come bene pubblico ma come bene comune. Secondo questa definizione il bene comune deve necessariamente essere gestito in regime pubblicistico anche nell’interesse delle generazioni future. È interessante osservare che il Pd ha ufficialmente accolto questa definizione, visto che tutti i suoi senatori (Bonino inclusa) hanno sottoscritto la presentazione della legge delega Rodotà in Senato (imitando la Regine Piemonte dove la proposta Placido, che contiene esattamente questa definizione, è stata sottoscritta addirittura da Pdl e Lega locali). A giudicare dal balbettio nel Pd romano nessuno se ne deve essere accorto, e poi chissà quando mai la proposta andrà in aula.
Terza ipocrisia è contenuta nel preambolo del decreto Ronchi, laddove si dice che l’Unione Europea obbligherebbe a privatizzare il servizio idrico. Siamo qui di fronte ad un’inedita figura di menzogna per decreto. Chiunque conosca trattato, direttive e principii fondamentali sa benissimo che la cosa semplicemente non è vera. Tuttavia, dando la colpa all’Europa il decreto Ronchi cerca di sgravare la maggioranza della responsabilità politica per un disastro annunciato. E inoltre, ancor più furbescamente, essa cerca di accreditare il decreto Ronchi come una di quelle leggi «comunitariamente necessarie» che la Corte Costituzionale ha in passato ritenuto immunizzare dal referendum ex art. 75. Riteniamo che questa volta molto difficilmente la Corte ci cascherà e confidiamo perciò che, raccolte entro estate 2010 le firme, si possa nella primavera 2011 concentrarsi su questo decisivo referendum che, parlando al cuore e al cervello degli italiani, potrebbe far rivivere il nostro solo strumento di democrazia diretta. Purtroppo dall’Idv si minacciano lenzuolate di referendum tutti condivisibili in linea di principio ma il cui solo effetto sarà quello di rendere molto difficile per tutti il raggiungimento del quorum.
da ilmanifesto ugo mattei 19/3/010
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