Il lato oscuro dell’impresa lumbard

Negli ultimi mesi si sono sprecati gli articoli sulla
performance economica della Lombardia. Ad esempio, il recente studio
dell’Infocamere sulla dinamica del mercato del lavoro ci dice che la
disoccupazione è scesa ai minimi storici (ma non ci dice quanto incide la
precarietà), che tra le prime dieci province più “virtuose”, ben 7 sono
lombarde. Gavazzi sul CdS ci spiega che sono numerosi i casi di successo delle
imprese lombarde, nella metalmeccanica come nell’alimentare. Sarà l’effetto
Expo, sarà che bisogna infondere certezze e immaginari vincenti in un periodo
di forte incertezza e di recessione incipiente, sarà la necessità di mostrare
che in Italia ci sono ancora modelli vincenti. Sarà……

Ma c’è qualcosa che non ci convince. Non vogliamo qui presentare
l’ennesimo “cahier de doleance” sulla condizione della precarietà. No, vogliamo
indagare quei modelli imprenditoriali e vincenti, di cui la retorica del
giornalismo economico fa uso a piene mani.

Facciamo due esempi.

Negli ultimi mesi, abbiamo assistito alla storia della
mozzarella di bufala campana inquinata dalla diossina e la cui esportazione è
stata per alcuni giorni vietata in molti paesi (tra cui Cina e Giappone). Colpa
della ‘monnezza  di Napoli. Situazione
del tutto differente,invece, la produzione di mozzarella della Galbani SpA, con
ben quattro stabilimenti nel sud della Lombardia e nel Cremasco (Casale Cremasco (CR), Corteolona (PV), Certosa (PV),
Melzo (MI)). I lombardi – come è noto (!) – sono tra i più grandi consumatori
di mozzarella e il latte utilizzato subisce fino a 150 controlli, proveniente
da allevamenti rigorosamente lumbard. Circa il 30% viene esportato e il
fatturato (della mozzarella) si è raddoppiato negli ultimi 10 anni e, inutile
dirlo, ha subito una nuova impennata dopo le disavventure campane. Certo, non
si tratta di mozzarella di bufala (d’altronde le bufale – quelle vere – in
Lombardia non pascolano), ma che importa. Ecco come si fa impresa. Peccato che
si dimentichi che, dopo 120 anni di onorata attività italica, la Galbani dal
2006 fa parte
della multinazionale francese Lactalis. In altre
parole, i profitti e i guadagni vanno tutti in Francia. Da noi rimane solo
l’attività di subfornitura, attività che – come sappiamo – si basa sullo
sfruttamento delle risorse esistenti (umane e territoriali) senza però
procedere a nessuna redistribuzione dei guadagni. Da questo punto di vista, la
mozzarella campana è molto più “profittevole”.

Secondo esempio. Dal 1957, ad Olgiate Comasco opera la
Sisme, impresa metalmeccanica con circa 900 dipendenti, leader nella produzione
di motori per gli elettrodomestici, altro esempio del made in Italy lumbard. Il
fatturato, anche qui raddoppiato negli ultimi dieci anni, viene garantito da
quattro grandi committenti. Uno di questi, il cui nome è ancora segreto, ha
imposto di delocalizzare una linea di produzione in Slovenia per vicinanza
territoriale (è tedesco), pena il venir meno delle commesse. La Sisme si trova
nella condizione di non poter rifiutare, come un qualsiasi lavoro autonomo
eterodiretto mono-committente. Il risultato sarà una riduzione di costi per la
Sisme, che possiamo facilmente immaginare verrà pagato dalle maestranze.
Verrebbe da chiedersi: ma la Sisme non era leader nella produzione di motori
elettrici, un fiero all’occhiello dell’industria lumbard, una realtà da portare
ad esempio alle prossime generazioni?

Si dirà: è la globalizzazione! Vero, ma Montescemolo prima e
Marcegaglia poi si sono resi conto che siamo oramai un paese di subfornitori,
che dipende dalle scelte imprenditoriali altrui? Non sarebbe il caso che
facessero un serio esame di coscienza, invece di erigersi a paladini del Made
in Italy?

Se la struttura produttiva più sana e valida del paese è
questa, si può capire perché la Lombardia è leader anche nella produzione di
precarietà.

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