da wumingfoundation: Henry Jenkins, #Occupy e la partecipazione come lotta. Audio dell’incontro di Bologna
Ecco la registrazione della conferenza tenuta da Henry Jenkins al DAMS di Bologna il 27 giugno scorso. Per facilitare l’ascolto, proponiamo un breve compendio del suo discorso.
Jenkins inizia elencando i progetti nei quali è attualmente coinvolto: nell’arco dei prossimi sei mesi usciranno ben quattro libri che lo vedono tra gli autori. I titoli riflettono l’ampio spettro dei suoi interessi. Oltre all’attenzione per le tematiche educative e legate all’istruzione, emerge – ed emergerà ancor più nel corso della conferenza – la torsione più esplicitamente politica che il suo lavoro sta conoscendo negli ultimi tempi.
La ripresa di attivismo politico-sociale sulle due sponde dell’Atlantico e l’irruzione sulla scena USA di movimenti come Occupy Wall Street – Jenkins lo cita più volte nell’intervento iniziale e nelle risposte alla domande – hanno retroagito sulle teorie del professore, che per molti versi – studiando la cultura dei fan – ne aveva intuito l’avvento, le modalità partecipative e le pratiche di riappropriazione e remix delle immagini mediatiche. Tra gli esempi più icastici che mostrerà nel corso dell’incontro, spicca il Casually Pepper Spray Everything Cop.
Dopo la breve intro, Jenkins propone un’articolata analisi della parola “contenuto”. E’ una parola sempre più usata nell’industria culturale e dell’intrattenimento, ma il suo significato viene dato per scontato, mentre di scontato non c’è più nulla. La realtà che il termine descrive sta subendo radicali trasformazioni. Ben presto, il contenuto come l’abbiamo conosciuto fino a oggi non esisterà più.
Non è possibile “chiudere a chiave” [lock down] il contenuto, esso non conosce più luoghi esclusivi né versioni definitive, non viene prodotto una volta per tutte per essere trasmesso a un pubblico che si limita a riceverlo e fruirlo nei modi che ci erano consueti. Il contenuto non è più definibile senza prendere in considerazione l’uso che ne viene fatto dal “pubblico”, i riutilizzi da parte della comunità. Oggi il contenuto è aperto, partecipato, rimixabile, “spalmabile” [spreadable] su diverse piattaforme, potenzialmente globale (sebbene il suo varcare le frontiere geoculturali avvenga in modi imprevedibili) e transmediale.
Jenkins precisa che con l’aggettivo “transmediale” indica l’insieme delle relazioni che si creano tra gli elementi di una narrazione che vengono “dispersi” tra i vari media. Perché si possa parlare di transmediale, la dispersione deve avvenire in modi significativi, cioè che producono ulteriore senso. Ciò riguarda tanto l’insieme quanto i singoli elementi considerati ciascuno per conto proprio. Un film tratto da un romanzo non è un esempio di transmedialità; lo sarebbe invece un film che proseguisse e arricchisse la storia iniziata in un romanzo, per poi passare il testimone a un fumetto, a un gioco di ruolo etc.
A un certo punto, Jenkins indica gli affreschi, gli altorilievi e le statue dell’ex-salone da ballo di Palazzo Marescotti, e definisce quell’insieme un esempio di transmedialità “di un’epoca precedente alla nostra” [gli affreschi di Giuseppe e Antonio Rolli risalgono alla fine del XVII secolo, quelli di Giuseppe Antonio Caccioli ai primi del XVIII, N.d.R.]. I soggetti mitologici dei dipinti fanno riferimento a storie iniziate altrove e con altri mezzi (i poemi epici, il teatro tragico), storie che a loro volte vengono riprese dalle sculture, e ogni elemento è in risonanza con gli altri. “Non è necessario che il transmediale sia digitale”.
Altri – non lui – utilizzano il termine “crossmediale”, che però non descrive lo stesso fenomeno. Secondo Jenkins, “crossmediale” si riferisce a strategie di marketing e campagne di promozione predisposte dall’industria dei media, mentre “transmediale” si riferisce a una narrazione che prosegue nel tempo attraverso diversi media con la partecipazione attiva (e molto spesso con la spinta iniziale) di una o più comunità di fan.
Secondo Jenkins, anche le lotte sindacali [labor struggles] nell’industria culturale avvengono in uno scenario mutato e riplasmato dal transmediale. Ne è un esempio lo sciopero degli autori avvenuto a Hollywood qualche anno fa. L’oggetto del contendere era se i contenuti on line andassero considerati mera “promozione” o ulteriore contenuto da remunerare.
Jenkins fa ulteriori e importanti precisazioni terminologiche, o meglio, concettuali:
1. “Cultura partecipativa” non è sinonimo di “web 2.0″ e nemmeno di “prodotti interattivi”. “Web 2.0″ è un modello di business, “interattività” è una dimensione predeterminata e preincorporata dall’industria nei suoi prodotti, mentre la partecipazione nasce dal basso e per iniziativa degli utenti, del “pubblico”, dei fan, dei riappropriatori e remixatori. E spesso la partecipazione è strappata dai fan con le unghie e coi denti, contro le pretese dell’industria di predeterminare il rapporto. L’esempio sono le proteste degli utenti dei social network contro le norme di utilizzo, le politiche sulla privacy etc. Jenkins dice (e la definizione ci sembra davvero significativa): “La cultura partecipativa è la storia delle lotte sulle diverse piattaforme mediali”. Questa dimensione conflittuale è stata più volte sottolineata. Ci preme rimarcarlo, perché a volte Jenkins è stato semplicisticamente descritto come un ottimista, mentre è uno studioso delle contraddizioni e delle battaglie in corso nell’industria dei media (non ci sembra fortuita la sua menzione di Karl Marx in una delle risposte fornite a Palazzo Marescotti). Battaglie il cui esito non è scontato.
2. “Virale” è una parola da non usare, da evitare, perché implica che la comunità degli utenti sia un mero oggetto di contagio, l’insieme dei ricettori di un virus. L’aggettivo “virale” inquadra la situazione nel modo sbagliato, rimettendo la palla in mano all’industria dei media, ridando potere a quest’ultima.
3. “Consumatori” è un’altra parola che dovremmo sforzarci di non usare, di superare, perché oggi è difficilissimo distinguere in modo netto l’atto del “consumo” da quello di un’ulteriore produzione di contenuto.
4. “Circolazione” e “distribuzione” non sono affatto la stessa cosa: la distribuzione di un prodotto dipende dalle scelte dell’industria, mentre la sua circolazione dipende dalle scelte della comunità degli utenti.
5. Oltre a essere “spalmabile”, un contenuto di successo dev’essere anche “trivellabile” [drillable], ovvero: a partire da esso devono essere possibili molteplici approfondimenti, un “andare a fondo” che precisa e arricchisce il messaggio. L’esempio negativo fornito da Jenkins è la recente campagna Kony2012, il cui contenuto era certamente spreadable ma non certo drillable, dato che tutto si fermava alla superficie di un messaggio semplicistico. I realizzatori del video non hanno fornito alcuna chiave o possibilità di approfondire e saperne di più sull’argomento: il sito web era molto povero, lo staff scarsamente preparato etc.
La parte delle domande & risposte è densa e piena di spunti. Parlando del Tea Party, Jenkins spiega che non tutto ciò che viene “dal basso” è per forza buono e progressista: esistono processi “dal basso” nocivi e culture partecipative reazionarie, negli USA come in Europa.
[Compendio a cura di Wu Ming 1]
E ora, buon ascolto! Come al solito: per ascoltare senza lasciare questa pagina, cliccare sull’icona blu di Playtagger. Per scaricare il file, cliccare sul file testuale e salvare l’mp3.
HENRY JENKINS | HOW CONTENT GAINS MEANING AND VALUE IN THE AGE OF SPREADABLE MEDIA – 1h 13′ QUESTIONS & ANSWERS – 32′ 58″Un altro resoconto della conferenza è leggibile qui:
Alberto Sebastiani, “Henry Jenkins e la cultura partecipativa”
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