Raga, qua si fa sul serio. Come avrete notato, sull’affaire San Precario si sono cimentate le firme più note del giornalismo italiano. Ma se col Pansa (divertiti qui) si va sul facile, con Gian Antonio Stella il gioco si fa duro. Il giornalista, famoso per aver lanciato il termine “la casta” riferito ad i nostri politici (con ragione), vede tre San Precario: il buono, il brutto e il cattivo.
Sul brutto c’è poco da dire. Toto Cuffaro neoeletto in Sicilia stabilizza xyz precari, che non sono propriamente precari, alcuni sì, ma che in maggioranza sono collaborazioni o raccomandazioni di votoscambismo premiate con la promozione a indeterminanza. La questione è seria, non lo neghiamo, ma non per questo Gian Antonio Stella appare meno coglione: il fenomeno clientelare, il votoscambismo, i favori in cambio di favori sono mestieri vecchi quanto l’umanità e non bisogna scomodare San Precario che invece si riferisce a qualcosa di attuale (leggere per credere) e specifico. Va be, anche i migliori sbagliano: Figuriamoci coloro che migliori non sono…
Veniamo al San Precario buono. Il San Precario buono è quello del centro sinistra che vuole assumere 500.000 precari statali (o amministrativi). L’accusa è duplice. Da una parte avanza il sospetto che il provvedimento sia per far cassa elettorale, dall’altra invoca la meritocrazia chiedendoci (oh! non scherziamo, scrive così sul serio) se affideremmo noi “stessi a un cardiologo che ci opera non perché lo sa fare ma perché assunto dopo anni di precariato senza aver mai vinto uno straccio di concorso e aver mai fatto un’esperienza seria all’estero?”. Ma vi rendete conto? Negli anni di precariato secondo Stella il medico in questione cosa faceva in ospedale: il custode? E’ ovvio che faceva il cardiologo,e come tale operava. (che esempio poi, il cardiologo! Qual’è il tasso di precarietà fra i cardiologi?) Fra precarietà e meritocrazia vi è una proporzione inversa: più c’è precarietà meno c’è merito, poichè il ricatto serve al controllo e non alla qualità. Mannaggia che scivolone.
La questione da porre è che la precarietà non può essere solo risolta per gli statali, questo è ovvio, e San Precario parla per tutti, ma la critica a questo tipo di provvedimento non può essere così faziosa. Prendiamo le affermazioni accessorie contenute nell’articolo. Una su tutte: non è l’informatizzazione a rendere meno necessari gli impiegati statali, bensì è il taglio dei servizi. E il vero dramma, nel tempo, si è rilevato un altro: dall’ipotesi (anche se farlocca) di assumere 500.000 precari, si è passati al concreto licenziamento dei medesimi 500.000, previsto dalla “soluzione finale Brunetta” entro un paio d’anni. 8ma forse al governo non regge la pompa)
Un paio di righe sono concesse al San Precario vero: quello cattivo. Quello del copyleft. Anche su questo ci riserviamo di rispondere in un momento consono che ora lo spazio è tiranno. Non vorremmo che leggendo questa intro vi passasse la voglia di leggere le perle di saggezza (si scherza) scritte da uno dei giornalisti di punta dell’Italia contemporanea. Alcune volte vien da pensare che la crisi del giornalismo non sia solo un prodotto del berlusconismo, ma che abbia radici più profonde. Di fronte a cotata profondita arretriamo e sbadigliamo.
La cavalcata di San Precario di GIAN ANTONIO STELLA (Corriere della sera, 11 dicembre2006)
Di Sant’Antonio ne esistono quattro, di San Giovanni quindici ma anche di San Precario, patrono dei provvisori, ce ne sono almeno tre. Uno buono, uno brutto e uno cattivo. O almeno così la vede una parte della sinistra. La quale plaude all’idea che il governo «assorba» (si fa per dire) i conti correnti «in sonno» che riposano da dieci anni nelle banche senza una sola operazione creditizia perché il titolare è defunto, e usi i soldi per assumere 300 mila
precari.
Forse 350 mila, precisa la senatrice Manuela Palermi, capogruppo al Senato del manipolo Pdci-Verdi. Una bella infornata, da aggiungere ai 150 mila (o 170 mila?) precari appena sistemati dal ministro per la Pubblica Istruzione Beppe Fioroni. Per un totale di mezzo milione di assunti. Ognuno dei quali, per inciso, avrà mamme e papà, zie e fratelli per poi manifestare riconoscenza verso chi si è premurosamente preso cura di lui. Totale: tre milioni di voti.
Potenzialmente fedeli al San Precario buono.
Quello cattivo, si sa: manco a parlarne. Campeggia sui siti Internet della sinistra alternativa benedicendo certe «azioni dimostrative»: «Miracolo a Salerno! La sera di domenica San Precario è apparso dentro al Ricordi Mega Store cittadino, elargendo magnanimamente centinaia di cd / * copyleft * e dispensando preci e consigli su come attaccare la precarietà e la mercificazione delle nostre vite.
La polizia intervenuta in forze sul luogo, tentando di identificare e fermare i devoti, si è quindi ritirata sotto le note dell’inno di giubilo al Santo».
Quello brutto, per carità. E’ il San Precario patrono di Totò «Vasa Vasa» Cuffaro, additato come tutore di «privilegi e interessi clientelari nel tentativo di mantenere i propri consensi» (Giovanni Barbagallo, Margherita), protagonista del «governo dello spreco e della clientela» (Leoluca Orlando, lista Di Pietro), ideatore di «enormi provvedimenti clientelari» (Calogero Micciché, Verdi) anche per la sua indefessa dedizione alla sistemazione dei precari.
Del resto, se ne vanta lui stesso, nella biografia scritta da Francesco Foresta: «La vicenda dei precari è un’altra di quelle favolette in cui vengo dipinto come l’orco cattivo che in maniera clientelare sfrutta le sacche dei disperati. Se ci andiamo a rileggere il contratto firmato con i siciliani ci accorgeremo che ho semplicemente mantenuto gli impegni: avevo detto che avrei stabilizzato i precari e che non ne avrei fatti di nuovi. Ho fatto questo. Resistendo a tutto, anche a un’autobotte carica di benzina che alcuni esagitati volevano far saltare in aria davanti alla Presidenza della Regione per intimidire il governo e costringerlo a nuove assunzioni. Quando mi sono insediato ho trovato un esercito di 77 mila precari, li ho ridotti a 22 mila». E allora, chiede lui, qual è il problema? «La mia colpa è quella di voler dare un futuro a gente che ha sempre visto il domani come un grosso punto interrogativo». Coro da sinistra: orrore! Ma quello è, appunto, il San Precario cuffariano e clientelare e procacciatore di voti plebei destrorsi che magari puzzano perfino di rapporti inconfessabili con la mafia.
Vuoi mettere il San Precario buono, sorridente, virtuoso, * politically correct * , sindacalizzato e antifascista? E sempre lì si finisce: sulla distanza abissale che viene data a questo o quel provvedimento a seconda che l’idea nasca
nella propria trincea o arrivi dalla trincea nemica. Onestamente: c’entra qualcosa la scelta di assumere in due tranche mezzo milione di precari con l’invocazione di uno Stato efficiente e pronto a premiare i migliori come quello teorizzato da Romano Prodi nella sua «lettera da Creta» del giugno 2005, quando faceva le pulci a Berlusconi? Scriveva allora l’attuale premier che affrontare le sfide «con le attuali regole che governano la pubblica amministrazione, la giustizia, la scuola, l’università e la ricerca non è in alcun modo possibile». E prometteva «concorrenza e riconoscimento dei meriti per garantire l’efficienza». Sia chiaro: nessuno può maramaldeggiare sul dramma di centinaia di
migliaia di persone che vivono da anni in una situazione di precarietà: un contrattino oggi, uno un po’ più lungo domani… Ed è vero che hanno il diritto a non esser presi per la gola e per i fondelli da una macchina pubblica che spesso con loro gioca sporco. Ma loro stessi, che oltre a essere aspiranti dipendenti assunti per l’eternità sono anche cittadini che necessitano di buoni medici e buoni impiegati del catasto e buoni vigili urbani e buoni maestri e
buoni professori lo dovranno ammettere: possiamo andare avanti così, di sanatoria in sanatoria? Affiderebbero volentieri se stessi a un cardiologo che li opera non perché lo sa fare ma perché assunto dopo anni di precariato senza aver mai vinto uno straccio di concorso e aver mai fatto un’esperienza seria all’estero? Questo è il nocciolo: con la scelta di sistemare i precari viene data la precedenza per l’ennesima volta a una categoria, una battaglia sindacale, una
prospettiva politica piuttosto che alla cosa pubblica, allo Stato, ai cittadini.
Appena fatto ministro, Luigi Nicolais spiegò al * Corriere * che bisognava svoltare. Conosceva le tabelle, riprese dalla stessa Cgil, sulle ore lavorate l’anno dei dipendenti pubblici secondo i contratti collettivi: 1.956 in Polonia, 1.801 in Irlanda, 1.746 in Belgio, 1.747 in Spagna, 1.672 in Italia: 72 ore in meno (l’equivalente di 10 giorni) della media Ue. Conosceva l’enormità dell’apparato italiano: 54 dipendenti pubblici ogni mille abitanti, una percentuale simile ai livelli di altri Stati ma senza i loro livelli di efficienza. Conosceva le sacche di sciatteria di certe amministrazioni. E a Enrico Marro che gli chiedeva di quanto fosse necessario ridurre i quasi 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici,
rispose: «Di 3-400 mila unità». In quanto tempo? «Nell’arco di 6-7 anni». E spiegò che sì, certo, capiva le motivazioni dei sindacati che volevano assumere una massa di precari ed era disponibile a parlarne. Ma «le assunzioni devono coprire un quarto, massimo un terzo, dei posti lasciati liberi, anche perché con l’innovazione tecnologica, i computer e le procedure semplificate serve meno personale». Da allora è passata solo una manciata di mesi.
Gian Antonio Stella
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