Record di infortuni nella fabbrica Marcegaglia

Il Fatto Quotidiano – 30 marzo 2011

L’anno scorso 135 incidenti su 1,183 dipendenti, quattro volte la media nazionale. Denuncia della Fiom lombarda: “Situazione inaccettabile”. Per la presidente della Confindustria il problema dipende dalla scarsa formazione dei lavoratori

Secondo i dati Eurostat, gli infortuni sul lavoro in Italia ogni 100 mila occupati sono 2674 (dati del 2007 pubblicati dall’Inail). Cioè 26,74 infortuni per ogni mille occupati. L’Italia non è messa male perché la media dell’area Euro è più alta: 3279 infortuni cioè 32,79 ogni mille occupati.

Nello stabilimento Marcegaglia di Gazoldo degli Ippoliti, in provincia di Mantova, là dove l’azienda della presidente di Confindustria ha la testa operativa, nel 2010 gli infortuni sul lavoro sono stati 135 su un totale di 1183 dipendenti. Per stare dentro la media Eurostat, la Marcegaglia avrebbe dovuto avere non più di 32 infortuni all’anno (31,63 per la precisione) invece ne ha avuti quattro volte di più, il 300 per cento in più della media italiana. E nei primi due mesi del 2011 gli infortuni nella stessa azienda sono stati già 20.

Una piccola strage che viene denunciata dalla Fiom-Cgil lombarda sulla base dei dati forniti dall’azienda. Da cui emerge un bollettino medico impressionante: lo scorso anno, in 63 casi si è trattato di infortuni agli arti superiori, in 35 agli arti inferiori, in 23 al capo, in 6 al torace, in 6 casi alla colonna vertebrale- bacino. Il documento si dilunga anche sui tipi di infortunio: 46 ferite, 37 contusioni, 23 lussazioni-distorsioni, 11 fratture, 8 lesioni da sforzo, 7 da corpi estranei, 3 lesioni da agenti chimico-fisici. Infine, tra gli agenti di infortunio: materiali, sostanze e radiazioni; l’ambiente di lavoro; le attrezzature e gli utensili; i mezzi di sollevamento e trasporto.

“Siamo di fronte a una situazione inaccettabile – dice Mirco Rota, segretario generale Fiom Cgil Lombardia – . Un’azienda non può permettersi di essere all’avanguardia sul mercato a discapito della sicurezza dei lavoratori”. La Marcegaglia, in effetti, è una delle aziende di punta del sistema industriale italiano: settore nevralgico, quello dell’acciaio, circa 6.500 dipendenti distribuiti in 50 stabilimenti nel mondo (in Italia sono una quindicina) e soprattutto un nome blasonato, anche per il ruolo assunto da Emma Marcegaglia. Che si è pronunciata più volte a favore della prevenzione degli infortuni.

Solo qualche mese fa, in una lunga intervista al quotidiano confindustriale Il Sole 24 Ore, ha affermato perentoriamente che “il grave problema degli incidenti sul lavoro si sconfigge con la prevenzione e l’informazione”. Lo ha fatto dicendosi soddisfatta della riduzione, nel 2010, del numero dei morti sul lavoro in Italia sotto la soglia dei mille. Un dato contestato dall’Osservatorio indipendente di Bologna che di morti ne ha contate 1080 e che aveva comunque verificato un aumento del 6 per cento rispetto al 2009. Tra l’altro, a dispetto degli auspici di Marcegaglia o delle campagne del ministero del Lavoro – quelle in cui la “colpa” degli infortuni è scaricata sulla scarsa attenzione o sulla poca cura da parte dei lavoratori – gennaio 2011, sempre secondo l’Osservatorio di Bologna, ha già oltre il 60 per cento in più dei morti per infortuni sui luoghi di lavoro rispetto a gennaio 2010.

Il meglio di sé Marcegaglia lo diede però in occasione del grave infortunio avvenuto nel suo stabilimento di Cremona dove, nel maggio del 2008, si verificò un incidente mortale in cui perse la vita Girolamo Di Maio, operaio trentaduenne con moglie e due bambini di tre e cinque anni. Rimase schiacciato da un pacco di tubi del peso di alcuni quintali che si è sganciato piombandogli addosso. L’imprenditrice mantovana commentò: “Riaffermo come imprenditrice e come presidente di Confindustria che l’impegno sulla sicurezza sarà fortissimo. È un gravissimo problema del paese”.

Del resto, lo slogan di Marcegaglia è: “Fare informazione e soprattutto formazione. Non è inasprendo le pene che si fa più formazione”. Mauro Mantovanelli è il segretario della Fiom di Mantova da sei mesi e confessa che quando è entrato per la prima volta nello stabilimento di Contino della Marcegaglia (200 dipendenti, più piccolo di quello di Gazoldo) è rimasto meravigliato: “Non potevo credere che l’azienda della presidente di Confindustria avesse una cura così bassa della salute e dell’ambiente”.  Mantovanelli ha fatto diverse assemblee con i lavoratori e ha fatto fatica a credere quanto gli hanno riferito sulla temperatura nello stabilimento. In inverno si lavora anche a meno 2 gradi, secondo il sindacalista, e di fronte alla richiesta di accendere le stufe, hanno riferito i lavoratori in assemblea, la risposta dei capi è stata: “Il gasolio costa troppo, riscaldatevi lavorando”. É difficile intravedere dove stia l’informazione ma come formazione alle durezze della vita non c’è male.

di Salvatore Cannavò

Maxirisarcimento per 15 precari della scuola a Genova

Dal Sole 24Ore del 25 marzo 2011

Maxirisarcimento di 500mila euro per 15 giovani precari ancora poco credito della scuola a Genova. Lo ha stabilito con sentenza dal Tribunale del Lavoro della città dopo un ricorso contro il ministero dell’Istruzione, università e ricerca promosso dalla Uil Scuola della Liguria, un’azione legale gratuita rivolta ai lavoratori precari del comparto. In particolare, i giudici del capoluogo hanno stabilito, per i 15 lavoratori precari, la ricostruzione della carriera, cioè gli stessi diritti economici del personale di ruolo; l’illegittimità dei contratti a termine a cui sono stati costretti i lavoratori precari; il riconoscimento di 15 mensilità per ogni lavoratore come risarcimento del danno per la mancata immissione in ruolo.

Il Miur dovrà quindi risarcire i lavoratori per circa 500mila euro, oltre che pagare le spese processuali. «Ormai è chiaro – ha dichiarato Corrado Artale, segretario generale Uil Scuola Liguria – che al ministero non conviene affrontare i ricorsi in oggetto. È invece necessario, legittimo e decisamente più conveniente riconoscere il ruolo ai lavoratori che ne hanno maturato il diritto». Il Tribunale del lavoro di Genova ha già pronunciato, nei mesi scorsi, le prime sentenze sui ricorsi in oggetto, grazie alle quali 6 lavoratori precari del capoluogo hanno ottenuto il riconoscimento dell’effettiva anzianità di servizio, il diritto alla progressione di carriera ed ai relativi arretrati. In Liguria hanno presentato ricorso circa 450 lavoratori tra le province di Genova, Imperia e Savona. Il 29 marzo sono previste le sentenze relative ai lavoratori precari di Savona.

I precari editoriali da mesi senza paga Contestata la Cgil

23 marzo 2011 – Il Manifesto

Il mercato editoriale non vive certo un momento d’oro ma quello che è successo ieri in una delle librerie la Rinascita a Roma – storico brand del Pci che oggi ha cambiato proprietà – rende perfettamente il disagio di tanti precari metropolitani impiegati nell’industria culturale. Durante la presentazione del libro sulle vittime dell’amianto a Casale Monferrato – La lana della salamandra, del giornalista di «A» Giampiero Rossi, edizioni Ediesse (ne parleremo nei prossimi giorni) – un gruppo di giovani del movimento «Punti San Precario» ha fatto irruzione nella libreria di via Savoia, contestando la presenza di lavoratori in nero all’interno della Rinascita. Alla presentazione era invitata anche la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, che è stata fatta bersaglio di contestazioni quanto e più della stessa libreria.
Urla contro Camusso e contro la Cgil, colpevoli, secondo i contestatori di «non garantire i precari» e di «tutelare solo i pensionati»: la segretaria, in particolare, è stata accusata di «presenziare a un evento in una libreria dove sono impiegati lavoratori in nero». I toni erano accesi, al movimento dei precari hanno replicato alcuni dei dipendenti della libreria, spiegando che certamente la situazione è difficile ma che al momento non ci sono persone senza contratto nei punti vendita. La segretaria Cgil ha detto di non essere a conoscenza dei rapporti di lavoro all’interno delle librerie e della vertenza, e ha aggiunto: «È legittimo che i lavoratori che vogliono tutelarsi si rivolgano a un sindacato come a un movimento dei precari, ma da noi a quanto io sappia non sono mai venuti: li invito pertanto a far conoscere alla Cgil, o all’organizzazione che ritengono più utile, i loro problemi, e una soluzione la cerchiamo sempre».
Tentiamo di ricostruire i fatti per capire come mai si sia arrivati allo scontro di ieri. Sul blog indipendenti.eu, qualche tempo fa è uscita un’intervista a un lavoratore anonimo delle librerie della Rinascita, che si era rivolto ai Punti San Precario lamentando un arretrato di ben 6 mesi di stipendio, peraltro lavorati in nero. Questo precario raccontava che nelle tre librerie di Rinascita (oggi rimaste due dopo che una ha chiuso) lavorano «circa 30 persone», «la maggior parte delle quali non riceve lo stipendio da mesi pur continuando a lavorare quotidianamente». Molti di questi giovani, dunque, per far fronte ad affitti e bollette, sarebbero costretti a fare «lavoretti extra», dal call center al ristorante, e rimarrebbero nelle librerie «perché credono nel progetto culturale che vi sta dietro». L’intervista è stata ripresa due giorni fa dal Fatto, e la pubblicità ha moltiplicato i malumori.
Abbiamo parlato con l’attuale proprietario delle librerie, Massimiliano Iadecicco. «È vero – ammette – viviamo un momento di grande difficoltà. Ho dovuto chiudere un punto vendita, dove lavoravano 6 persone, e ne ho potute riassorbire soltanto 2. Non è vero però che ho 30 addetti. I dipendenti sono 14: 12 a tempo indeterminato e 2 a tempo determinato. È vero, ed è stata una mia leggerezza, che dopo la chiusura di una libreria ho tenuto in tutto 4 collaboratori, 2 da settembre scorso e 2 da gennaio, non in nero ma in prestazione occasionale. Tirata un po’ troppo per le lunghe, ma mi ripromettevo di riassumerli». Angela Bruno, una delle dipendenti, conferma che «oggi non abbiamo persone non contrattualizzate ma è vero che ci sono stati 4 collaboratori che hanno ragioni di disagio. Tutti noi siamo in ritardo con gli stipendi in media da tre mesi, ma questo non ci impedisce di continuare a lavorare: abbiamo condiviso con la proprietà un percorso di riorganizzazione, in attesa speriamo della stabilità». Iadecicco e i dipendenti incontreranno i Punti San Precario lunedì prossimo, per un dibattito pubblico, alla libreria di viale Agosta 36, alle 16.

di Antonio Sciotto

“Io non pagherò” impazza in Grecia

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Bloccano i caselli autostradali per consentire agli automobilisti di viaggiare gratis. Coprono con sacchetti di plastica le biglietterie automatiche della metropolitana impedendo ai pendolari di pagare. Anche alcuni medici si sono uniti a loro, impedendo ai pazienti di pagare i ticket presso gli ospedali statali.
Alcuni la chiamano disobbedienza civile. Altri mentalità ‘anarcoide.’ Comunque lo si voglia definire, il movimento ‘I Won’t Pay’ (Io Non Pagherò) ha scatenato un acceso dibattito
in una Grecia ferita dalla crisi del debito, per far fronte alla quale il governo è stato costretto ad adottare drastiche misure di austerity – tra maggiori imposte, tagli salariali e pensionistici e picchi al rialzo nei prezzi dei servizi pubblici.
Ciò che era iniziato sotto forma di protesta attuata da un minuscolo gruppo di cittadini pendolari imbestialiti per l’aumento dei pedaggi autostradali si è sviluppato in un vasto movimento che sta interessandosempre più settori della società – secondo molti manovrato dai partiti di sinistra, desiderosi di cavalcare
il malcontento popolare.
Una valanga di scandali politici scoppiati negli ultimi anni – tra cui una dubbia partita di scambio di terreni e le presunte tangenti negli appalti statali – ha alimentato questo vento di ribellione.
All’alba di venerdì scorso circa 100 attivisti appartenenti ad un gruppo sindacale comunista hanno coperto con sacchetti di plastica i distributori automatici delle stazioni della metropolitana di Atene, impedendo ai passeggeri di pagare le tariffe, per protestare contro gli aumenti nei trasporti pubblici.
Altri attivisti hanno danneggiato diversi distributori automatici di biglietti per autobus e tram. E migliaia di persone semplicemente non si preoccupano più di convalidare i loro biglietti in autobus e metropolitana.
“La gente ha già ampiamente pagato attraverso le tasse, quindi adesso dovrebbe avere il diritto di viaggiare gratuitamente” ha dichiarato Konstantinos Thimianos, 36 anni, impegnato nel picchettaggio della stazione della metropolitana di Piazza Syntagma.
In una delle recenti occupazioni dei caselli presso la periferia nord di Atene i manifestanti indossavano magliette colorate con la scritta “Total Disobedience”,e cantavano: “Non pagheremo la vostra crisi.”
Il movimento ha preso piede anche nel settore sanitario, con diversi medici ospedalieri impegnati a presidiare le macchinette dei ticket per impedire ai pazienti di pagare i 5 euro di
tariffa flat per le visite generiche.
I detrattori accusano i manifestanti di rappresentare l’ennesimo esempio della mentalità anarcoide che ha contribuito a far scivolare il paese nel caos finanziario.
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“Questa esplosione della illegalità è come un cancro che si sparge,” ha scritto Dionysis Gousetis in un recente articolo apparso sulle colonne del quotidiano Kathimerini.
“Grazie all’alibi della crisi gli scrocconi hanno smesso di nascondersi. Fanno orgogliosamente bella mostra di sé ed agiscono come eroi della disobbedienza civile. Una via di mezzo
tra Rosa Parks e il Mahatma Gandhi”, ha proseguito Gousetis. “Ma il non pagare in prima persona per loro non è abbastanza; devono anche costringere il prossimo a fare lo stesso.”
Molti accusano i partiti di sinistra ed i sindacati di cavalcare l’onda del movimento popolare per i propri fini politici.
“Pensate che l’illegalità sia qualcosa di rivoluzionario, in grado di aiutare il popolo greco” – ha detto di recente il primo ministro Papandreou criticando in Parlamento Alexis Tsipras, capogruppo della sinistra – “ma il popolo oggi sta pagando proprio la diffusa illegalità del nostro paese.”
Il movimento “I Won’t Pay” testimonia tuttavia un aspetto radicato nella società greca: la propensione a piegare le regole, a ribellarsi all’autorità, in particolare quella dello Stato. Si tratta di una mentalità così radicata che molti greci a malapena si rendono conto della miriade di piccole trasgressioni commess quotidianamente: la moto sul marciapiede, la vettura che passa con il rosso, la violazione della ennesimo tentativo da parte del governo di vietare il fumo nei bar e ristoranti.
Meno innocua è la diffusa e persistente tendenza alla evasione fiscale, nonostante le misure sempre più disperate attuate dal governo. “Si tratta di una generica cultura della illegalità, ad iniziare dalle cose più banali fino alla frode o alla evasione fiscale; una cosa che esiste fin dalla notte dei tempi”, ha affermato il commentatore Nikos Dimou.
Tuttavia molti vedono il movimento “I Won’t Pay” come qualcosa di molto più semplice: il rifiuto da parte del popolo di pagare per gli errori commessi da una serie di governi accusati di avere sperperato il futuro della nazione con la corruzione e il clientelismo.
“Non credo faccia parte del carattere greco. I greci quando constatano che llegge viene realmente rispettata in ogni ambito, sono portati ad applicarla”, ha
detto Nikos Louvros fumando una sigaretta in una piazza ateniese, e facendosi beffe del divieto di fumo.
“Ma quando da alcuni non viene rispettata, ad esempio quando si ha a che fare
con ministri che rubano … beh, se le leggi non vengono rispettate in alto, anche tutti gli altri finiscono per non rispettarle.”
5 marzo 2011, di E. Becatoros -Traduzione di Anticorpi –Articolo in lingua inglese, pubblicato sul sito MSNBC
Link diretto all’articolo:
http://www.msnbc.msn.com/id/41723432/ns/business-world_business/
Traduzione di Anticorpi.
Post correlati: Grecia: Prove Tecniche di NWO Post correlati: Engdahl sulla Crisi in Grecia, in Italia e
in Occidente
Fonte: http://www.anticorpi.info/2011/03/io-non-paghero-impazza-in-grecia.html
http://mercatoliberotestimonianze.blogspot.com/2011/03/io-non-paghero-impazza-in-grecia.html

Né generale, né generalizzato. Un modesto sciopero politico

Una riflessione del Coordinamento migranti di Bologna come contributo al dibattito sullo sciopero precario

www.lavoromigrante.splinder.com

Da mesi evocata, richiesta, immaginata, alla fine è arrivata la data dello sciopero generale della CGIL. Non si sa se sarà davvero l’occasione in cui il sociale mostrerà tutta la sua forza di pressione politica. Oppure se le quattro ore di astensione dal lavoro per i diritti e contro la politica del governo saranno un contenitore nel quale ognuno potrà immaginare il proprio avversario per poi dire di averlo colpito duramente. Si vedrà. Noi ci limitiamo a osservare che lo sciopero forse non è più pensabile solo come un’astensione dal lavoro con relativa manifestazione e comizio finale; forse è necessario fare un passo avanti.

Intanto, tra mille difficoltà, e con una partecipazione decisamente inferiore rispetto all’anno precedente, lo scorso primo marzo ha avuto luogo la seconda giornata senza immigrati “24h senza di noi”. Si potrebbe facilmente ironizzare dicendo che la giornata è effettivamente riuscita, perché pochi immigrati vi hanno partecipato e molti forse ne ignoravano persino l’esistenza. In questo clima di difficile visibilità per i migranti c’è chi ha scelto di tornare a pratiche eclatanti e simboliche che nell’assalto al Cie, mentre urlano la giusta rabbia dentro a una situazione intollerabile, rischiano però di rappresentare in forma rovesciata il modello emergenziale con il quale sono costantemente affrontati i movimenti dei migranti. Come non pensiamo che la precarietà sia un dato contingente della presente organizzazione del lavoro, al quale si possa rispondere con qualche aggiustamento giuridico o contrattuale, così non pensiamo che i movimenti dei migranti siano un fatto eccezionale da governare o da sostenere in modo episodico ed esemplare.

Poiché pensiamo che la presenza dei migranti sia un dato strutturale e insopprimibile all’interno delle nostre società, noi abbiamo scelto un’altra strada. Con rabbia non minore abbiamo scelto di organizzare come l’anno scorso lo sciopero con e dei migranti. L’abbiamo fatto attraversando dove possibile gli attivi dei delegati della Fiom, parlando con gli operai migranti e italiani nelle fabbriche e nelle cooperative, incontrando e mettendo in comunicazione il lavoro precario e migrante. Lo sciopero che ne è uscito ha visto a Bologna una partecipazione più ampia di quella dello scorso anno sia per le fabbriche coinvolte sia per il numero di lavoratori che vi hanno partecipato. Un modesto sciopero politico che non ha difeso né richiesto un contratto, ma ha opposto italiani e migranti insieme a una condizione particolare che finisce per coinvolgere tutti. Uno sciopero che ha individuato il suo avversario tanto nelle imprese, che sull’economia della legge Bossi-Fini costruiscono i loro profitti, quanto nelle norme legislative e amministrative che consentono questo specifico regime di accumulazione di profitti.

Noi sosteniamo che i migranti nella loro singolarità mostrano quotidianamente i caratteri universali della condizione precaria: sia per la regolare irregolarità delle loro condizioni lavorative, sia per il dissolvimento dei contenuti materiali della cittadinanza che vivono sulla loro pelle. Ciò significa che ogni riflessione sul nuovo welfare dovrebbe non solo evitare il collegamento al salario come criterio della cittadinanza, ma anche porsi il problema di quali gerarchie sociali implicite potrebbe stabilire l’accesso alle prestazioni sociali. Il welfare forse non può essere solo il risarcimento per il salario mancante, ma anche porsi la questione di quale relazione ogni welfare stabilisce tra le figure lavorative, visto che, per esempio, sul terreno attuale del welfare, già ampiamente monetarizzato, la divisione sessuale del lavoro rinnova e rafforza lo sfruttamento e l’isolamento delle donne migranti. Per queste e altre ragioni di fronte a chi, ogni volta che si parla sciopero del lavoro migrante, dice che si tratta di uno sciopero etnico, c’è ormai solo il fastidio. Lo sciopero del lavoro migrante non è stato, né può essere, solamente lo sciopero dei migranti, ma ha attraversato e coinvolto moltissimi lavoratori, precari e non. Allo stesso tempo non può essere solo uno sciopero nazionale, perché il lavoro migrante mette a nudo la dimensione transnazionale dello sfruttamento del lavoro precarizzato. Forse non è allora un caso che quest’anno, anche a Vienna ci sia stata un’esperienza di sciopero del lavoro migrante, così non dovrebbe stupire che a Bologna si sia registrata la presenza massiccia di studenti e di donne che hanno agito in autonomia, ma anche in continuità con lo sciopero stesso.

L’opposizione alla condizione migrante mette infatti in gioco tanto la possibilità di accedere alla formazione quanto la lotta contro il patriarcato. La lotta contro una condizione composta di particolarità non sopporta una facile sintesi generale. Gli studenti figli di migranti non tollerano più l’etichetta di seconda generazione, seguendo la saggia idea di non voler essere secondi a nessuno. Non vogliono accomodarsi insieme ai loro compagni degli istituti tecnici e professionali nella sala d’attesa della cittadinanza nella paziente attesa di un lavoro precario e sottopagato. Le donne italiane e migranti sanno perfettamente che il patriarcato non è un residuo del passato e tanto meno il portato esotico che proviene da terre lontane, ma una modalità concreta e attuale di organizzare i rapporti tra gli uomini e le donne e, non da ultimo, il lavoro riproduttivo, salariato o meno. Una condizione che necessariamente si oppone ai modelli di trasmissione del sapere e alle logiche più intime di divisione del lavoro produttivo e riproduttivo non può che essere una condizione universale. Uno sciopero contro questa condizione non può che essere uno sciopero politico, che non ricompone tutti i protagonisti in un’unica figura, ma li fa comunicare e agire insieme contro avversari riconosciuti come comuni.

Quest’anno abbiamo propagato la parola d’ordine dello sciopero con lo slogan: L’abbiamo fatto e lo rifaremo… Anche dentro il dibattito e la pratica dello sciopero precario porteremo l’esperienza di quello che abbiamo fatto, senza la pretesa di indicare un altro modello generalizzabile, ma segnalando un metodo che può contribuire a fare dello sciopero precario qualcosa se non nuovo almeno politicamente originale.

Coordinamento Migranti Bologna e Provincia