L’alienazione nel lavoro in epoca postfordista

www.fondfranceschi.it – 24 Ottobre 2010

A forza di pretendere che i lavoratori siano autonomi e responsabili senza dar loro i mezzi per diventarlo realmente, il risultato più efficace che si ottiene è quello di colpevolizzarli.

Il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento, ma anche uno strumento di realizzazione personale. Per questo motivo la disoccupazione e la precarietà possono rappresentare un vero e proprio disagio esistenziale. Ma cosa accade quando il lavoro diventa il solo mezzo capace di dare un senso alla vita? Cosa avviene se, pur non potendo contribuire alla definizione dei suoi obiettivi, il lavoratore diventa il responsabile del loro mancato raggiungimento? In che modo le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro in epoca postfordista determinano le nuove forme di alienazione contemporanea legate all’attività lavorativa?

Dopo Freud, lo sappiamo bene: lavorare e amare sono i fondamenti della civiltà. È per questo che la mancanza di lavoro, che si tratti della disoccupazione o della precarietà, rappresenta un vero e proprio disagio esistenziale e può essere vissuta da coloro che la subiscono come un fallimento personale. Il lavoro è essenziale per ogni essere umano. È non solo un mezzo di sostentamento, ma anche uno strumento di realizzazione personale. Permette di trasformare il mondo e di trasformare se stessi, modificando il rapporto che si stabilisce con gli altri, il nostro stesso modo di vedere le cose. Una cosa, però, è sostenere che, grazie al lavoro e al riconoscimento sociale che ne deriva, possiamo contribuire alla tutela e a volte anche allo sviluppo della nostra identità; altro è trasformare il lavoro in un oggetto dotato di proprietà magiche, l’unico in grado di dare un senso alla vita. L’individuo diventa allora schiavo della sua attività. Come scriveva Hannah Arendt nel 1961: «Mentre l’opera termina quando l’oggetto è compiuto, e pronto per aggiungersi al mondo comune degli oggetti, il lavoro gira indefinitamente nel vortice sempre uguale dei processi biologici degli organismi viventi, dove fatica e dolore hanno fine solo con la morte degli organismi medesimi».[1] Certo, i tempi delle catene di montaggio e della schiavitù istituzionalizzata raccontati in modo magistrale da Chaplin in “Tempi moderni” sono ormai lontani. All’epoca del postfordismo e del management partecipativo, però, esistono nuove forme di alienazione legate all’attività lavorativa che meritano di essere analizzate.

Il fordismo è entrato definitivamente in crisi nel corso degli anni Settanta. Sono stati gli stessi datori di lavoro, di fronte ad una domanda che cambiava e si diversificava continuamente, a decidere che era nel loro interesse che le catene di produzione divenissero più “flessibili”. Ha fatto così la sua comparsa in Europa il toyotismo, una nuova forma di organizzazione del lavoro che si ispira alle metodologie sperimentate in Giappone negli anni Cinquanta. Con il metodo kanban, la produzione viene ormai gestita dall’inizio alla fine: si mettono in produzione solo gli oggetti già ordinati dai clienti. Questo permette di produrre a “pieno regime” e “just in time”. La competitività dell’azienda è l’esito congiunto della riduzione dei costi superflui e dell’adattamento all’evoluzione della domanda: zero tempi d’attesa, per risposte sempre rapide; zero difetti, per una qualità sempre migliore; zero stoccaggi, per adattarsi prontamente alle variazioni quantitative della domanda. Siamo in presenza di una gestione della produzione radicalmente diversa dal fordismo. Secondo i principi stabiliti da Ford, bisogna in primo luogo produrre, successivamente provvedere agli stock, e infine vendere. Il toyotismo inverte la relazione: bisogna innanzitutto vendere, e solo successivamente, sulla base delle vendite, produrre. È la domanda a stabilire direttamente la quantità e le caratteristiche della produzione. Queste trasformazioni hanno avuto un impatto diretto sull’organizzazione del lavoro. I lavoratori hanno dovuto mostrarsi flessibili e competenti, cooperativi e coinvolti, partecipare alle decisioni e prendere delle iniziative, dar prova di un’autonomia sempre maggiore. Donde la comparsa di un nuovo vocabolario: si parla di stato dell’arte, competenze, know how, qualifiche sociali. Si ritiene che il modo migliore di lavorare sia in équipe, secondo “modelli di competenza” in grado di “far appello alla soggettività” dei dipendenti.

Nel 1982 è stato pubblicato il bestseller “Alla ricerca dell’eccellenza”, un libro sulla gestione economica accolto subito da un successo strepitoso, nel quale si sosteneva che le aziende che aspirano all’eccellenza devono stimolare la fiducia del personale e favorire la responsabilità individuale.[2] Nel periodo in cui scrivevano il libro, Thomas Peters e Robert Waterman erano consulenti alla McKinsey Consulting, uno degli studi di management più in vista, di quelli che svolgono consulenze per grandi imprese ma anche per gli Stati, gli stessi colossi anglosassoni che hanno gestito la transizione all’economia capitalista delle economie socialiste. Di fronte al successo del modello nipponico, i nostri due coraggiosi manager si sono impegnati nell’individuare le ricette capaci di condurre e mantenere ogni genere di impresa a livelli d’eccellenza e hanno elaborato a questo scopo il modello delle «sette S». Struttura: preservare una struttura semplice; strategia: essere sempre attenti al cliente; systems: basare la produttività sulle motivazioni del personale; skills: attenersi alle proprie competenze; staff: favorire autonomia e innovazione; stile: saper coniugare rigore e flessibilità; shared values: fare sempre appello a particolari valori chiave. Progressivamente, l’azienda cambiava look e ostentava la volontà di farsi carico della piena realizzazione dei suoi dipendenti: ognuno doveva sentirsi libero di agire come voleva, di portare alla propria azienda idee nuove e di trovare al suo interno il proprio benessere. Consegnati alla loro creatività e alla loro inventiva, i lavoratori – si sosteneva – devono saper creare le condizioni del loro successo. Prendendo atto delle loro competenze devono essere polivalenti e flessibili. Mostrando di avere fiducia in se stessi, devono essere in grado di superare ogni difficoltà. I nuovi modelli manageriali, contrariamente al taylorismo, hanno la pretesa di restituire al mondo del lavoro l’uomo nella sua interezza.[3] «Trattate le persone come esseri adulti. – scrivevano Peters e Waterman – Trattatele come soci. Trattatele con dignità, con rispetto. Considerate loro – e non gli investimenti o le tecniche – come la fonte prima degli utili della produttività». Come non valutare allora con favore l’evoluzione della condizione dei lavoratori dipendenti che, trattati dal taylorismo alla stregua di macchine, si trasformavano ora in “risorse umane”, riabilitate nel discorso dominante e infine integrate negli innumerevoli programmi di sviluppo della persona?

La realtà, però, è sempre più complicata di come viene descritta nei discorsi. Di fronte alla concorrenza e alla pressione sempre più grandi legate alla globalizzazione, le pratiche manageriali adottate per il buon funzionamento delle aziende si irrigidiscono. Le decisioni di riassetto, declassamento, accantonamento o licenziamento si moltiplicano, mentre coloro che conservano il proprio posto di lavoro vengono sottoposti a oneri sempre più impegnativi. Le scadenze si ravvicinano. Le valutazioni si moltiplicano. Le analisi dei risultati si intensificano. Per fare carriera si deve mostrare di essere capaci di trovare il proprio posto in contesti estremamente differenziati; bisogna dar prova di duttilità e flessibilità. Ogni lavoratore, per restare “impiegabile”, deve costantemente essere all’altezza di ciò che gli viene chiesto, proprio mentre si moltiplicano le tensioni nei rapporti personali lavorativi. I dipendenti sono sottoposti a una pressione omologante che li porta a subire le regole dell’impresa per non essere catalogati fra i devianti, gli elementi di cui occorre sbarazzarsi.[4] Ognuno è libero di organizzare il proprio lavoro come meglio crede, ma deve al tempo stesso raggiungere i risultati previsti da altri. Sono infatti le aziende a fissare per ogni lavoratore obiettivi e calendari che non possono essere messi in discussione. Ma come si può, allora, parlare ancora di autonomia quando coloro che vengono definiti autonomi non possono prendere alcuna decisione al di fuori del quadro prestabilito dai dirigenti? In realtà, l’autonomia nell’impresa è molto relativa e non permette ai lavoratori di autodeterminarsi. In compenso, la sua utilità è grande: serve a giustificare il fatto che, se gli obiettivi non vengono raggiunti, siano i dipendenti a doversi assumere la piena responsabilità del fallimento. In quanto agenti autonomi, infatti, essi sono responsabili delle loro azioni e delle conseguenze delle loro azioni: nessun errore potrà essere perdonato. Ma si può, nello stesso tempo, non essere liberi di fissare i propri obiettivi ed essere completamente responsabili di un eventuale fallimento? In realtà, lungi dall’essere autonomi, i lavoratori sono sempre più sotto controllo. Malgrado la presunta libertà, sono costretti a lavorare in stato d’urgenza e sotto la pressione degli obiettivi fissati dall’azienda. Il tutto è agevolato dalle nuove tecnologie informatiche (internet, cellulari ecc.) che consentono all’azienda di essere in contatto permanente con i suoi dipendenti: il confine tra la sfera privata e la sfera pubblica si fa sempre più sfumato, e i lavoratori si trovano a essere costantemente valutati e giudicati in base alla loro capacità di essere sempre disponibili, competenti e impiegabili. Se un tempo autonomia e responsabilità venivano invocate per limitare la dipendenza dei lavoratori dai loro superiori, oggi, imposte dall’alto, si ritorcono contro gli stessi lavoratori.

La competizione e la globalizzazione contemporanee non transigono: chi non si adatta non sopravvive. Come illustra l’americano Stephen Covey, autorevole consulente aziendale, «la nuova era esige la grandeur, pretende che ognuno abbia la certezza di realizzarsi lavorando con passione e che sia pronto a pagare in prima persona».[5] Per dirla in altro modo, ognuno deve ormai credere alla propria mission. Tutto dipende da sé. Basta volerlo. Anche se, in questa corsa forsennata verso il successo, si deve essere pronti al sacrificio estremo: pagare in prima persona. Non è d’altronde proprio quello che sta accadendo oggi? Se tutto dipende dalla propria volontà, quando qualcosa va storto o si commette un errore si pensa di trovarsi di fronte alla prova irrefutabile che non si è stati capaci di essere all’altezza delle aspettative. In un universo in cui ognuno può (e deve) diventare “imprenditore della propria vita”, la mutazione forzata viene vissuta come una sanzione alla propria mancanza di impegno. A forza di pretendere che i lavoratori siano autonomi e responsabili senza dar loro i mezzi per diventarlo realmente, il risultato più efficace che si ottiene è quello di colpevolizzarli. È il loro “saper essere” che è direttamente in causa e non più solo il caro e vecchio “saper fare”. Errori, sviste, stanchezza: tutto diventa inaccettabile; tutto rinvia all’incapacità del singolo di adattarsi alle esigenze del mercato. È allora che il senso di colpa aumenta e, talvolta, diventa insopportabile. Per non parlare poi di quanto succede da quando si è scatenata la crisi economica. Ormai, licenziamenti e mutazioni forzate sono il pane quotidiano di molte aziende. Per alcune di loro, si tratta di una necessità. Ma, per i lavoratori, questa stessa necessità si trasforma in un incubo. Come sopportare una mutazione forzata o un licenziamento quando ci si è dati corpo e anima alla propria azienda? Come accettare il fatto di non essere più utili all’azienda, quando si è sempre stati pronti a lavorare con passione, fino al limite estremo della propria resistenza fisica e psichica? Le inchieste sui suicidi che hanno colpito nel 2009 e nel 2010 France Télécom mostrano che la maggior parte di coloro che si sono dati la morte erano dei lavoratori particolarmente investiti e meticolosi.[6] Non si trattava quindi di individui depressi, fragili e incapaci di adattarsi alle trasformazioni delle aziende, ma al contrario di lavoratori che non avevano esitato ad assumere un certo numero di responsabilità, a lavorare più del dovuto, senza riposarsi e senza prendere tutte le ferie a loro disposizione. Erano delle persone che avevano talmente aderito alla cultura manageriale delle proprie aziende da non rendersi nemmeno più conto che la loro vita dipendeva dal lavoro e dalle soddisfazioni che potevano trarne. Ma, a partire dal momento in cui tutto dipende dal lavoro, le difficoltà lavorative che si possono incontrare (e che tutti, prima o poi, incontriamo) diventano degli ostacoli insormontabili. Dopo essersi dati a fondo nel proprio lavoro, come uscire indenni da un declassamento o un licenziamento?

Con Taylor l’uomo era scomparso dall’universo manageriale. Oggi, l’uomo è presente, ma la sua presenza, nonostante l’utilizzo, nei discorsi, di concetti positivi e forieri di consenso, come autonomia, partecipazione, convivialità, motivazione, è unicamente al servizio della produttività. Il modello di persona promosso dalle logiche manageriali è quello di un soggetto da cui si esige iniziativa, autonomia, responsabilità, coinvolgimento, ma l’esaltazione dell’autonomia e della responsabilità individuale mira a nascondere il fatto che i lavoratori sono sempre più spinti verso il mimetismo e il conformismo.[7] Alla valorizzazione della decisione e dell’autonomia corrispondono nuove forme di alienazione nel lavoro. La logica di cui sono prigionieri i lavoratori è sempre più perversa: la responsabilità viene abilmente trasferita dall’alto verso il basso; i dipendenti devono anche dar prova di iniziativa e inventiva, ma non possono autonomamente fissarsi alcun obiettivo; se gli obiettivi assegnati non sono raggiunti, la colpa non è mai attribuita al fatto che gli obiettivi erano oggettivamente irraggiungibili, ma alla mancanza di motivazione e di valore del dipendente. Quando arriverà il momento di riconoscere che mettere l’uomo al centro delle preoccupazioni dell’azienda non significa ridurlo a una semplice risorsa umana?

di Michela Marzano



[1] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2008.

[2] T. Peters, R. Waterman, Alla ricerca dell’eccellenza, Sperling & Kupfer, Milano 2005.

[3] L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Parigi 1999; J.-P. Le Goff, La barbarie douce, La Découverte, Parigi 1999.

[4] C. Dejours, Conjourer la violence. Travail, violence, santé, Payot, Parigi 2007.

[5] S. Covey, L’ottava regola. Dall’efficacia all’eccellenza, Franco Angeli, Milano 2005.

[6] C. Dejours, Suicide et travail: que faire?, PUF, Parigi 2009.

[7] M. Marzano, Estensione del dominio della manipolazione, Mondadori, Milano 2009.

La vita di un operaio albanese vale meno di quella di un italiano

IL CASO
“La vita di un operaio albanese
vale meno di quella di un italiano”
Torino, sentenza shock: morì sul lavoro, risarcimento ridotto. Ai familiari una somma dieci volte inferiore. All’uomo deceduto addebitato anche il 20% di concorso di colpa nella propria morte
di ALBERTO CUSTODERO

ROMA – L’operaio morto è albanese. Ma la sua vita vale meno di quella di un italiano. Ai suoi familiari, che vivono in Albania, “area ad economia depressa”, va un risarcimento di dieci volte inferiore rispetto a quello che toccherebbe ai congiunti di un lavoratore in Italia. Altrimenti madre e padre albanesi otterrebbero “un ingiustificato arricchimento”. Questa gabbia salariale della morte, ispirata al criterio del risarcimento a seconda del Paese di provenienza del deceduto sul lavoro, è contenuto in un sentenza shock del Tribunale di Torino. Il giudice civile, Ombretta Salvetti, richiamandosi ad una sentenza della Cassazione di dieci anni fa, ha dunque deciso di “equilibrare il risarcimento al reale valore del denaro nell’economia del Paese ove risiedono i danneggiati”. Dopo aver addebitato all’operaio deceduto il 20% di concorso di colpa nella propria morte, la dottoressa Salvetti ha riconosciuto a ciascun genitore residente in Albania la somma risarcitoria di soli 32mila euro. Se l’operaio fosse stato italiano, sarebbero state applicate le nuove tabelle in uso presso il Tribunale di Torino dal giugno 2009 in base alle quali a ogni congiunto dell’operaio morto sarebbero stati riconosciute somme fino a dieci volte superiori (fra 150 e 300 mila euro).

Questa sentenza destinata a fare discutere in un mondo del lavoro nel quale la presenza di lavoratori stranieri è sempre più alta, è stata criticata da uno dei massimi esperti di diritto civile, l’avvocato Sandra Gracis. “In base a questo criterio del Tribunale torinese – spiega il legale – converrebbe agli imprenditori assumere lavoratori provenienti da Paesi poveri, perché, laddove muoiano nel cantiere, costa di meno risarcire i loro congiunti”. “Ma ribaltando la situazione – aggiunge l’avvocato Gracis – che cosa sarebbe successo se il dipendente morto fosse stato del Principato di Monaco, oppure degli Emirati? Il risarcimento ai genitori sarebbe stato doppio o triplo rispetto a quello per un italiano?”.

Secondo Sandra Gracis, “il giudice torinese s’è rifatto al una sentenza della Cassazione del 2000 peraltro non risolutiva, ignorando che la Suprema Corte, appena un anno fa, ha affermato che la “tutela dei diritti dei lavoratori va assicurata senza alcuna disparità di trattamento a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extracomunitaria”. Già nel 2006 la Cassazione aveva stabilito che “dal punto di vista del danno parentale, non conta che il figlio sia morto a Messina o a Milano, a Roma in periferia o ai Parioli. Conta la morte in sé, ed una valutazione equa del danno morale che non discrimina la persona e le vittime né per lo stato sociale, né per il luogo occasionale della morte”.

Cisl e Uil battono cassa!

Il contratto è separato ma lo paga chi non c’era – Rocco Di Michele

Fare sindacato, di questi tempi, non è facile. Cala l’occupazione, aumentano i  ricatti, i salari sono fermi, quando va bene.
Per i precari la situazione è ancora peggiore. Come fa un sindacato, di questi tempi, a mantenersi (pagando funzionari,  sedi, bollette, materiale di cancelleria o propaganda, spese per le  manifestazioni, ecc)?

Le quote degli iscritti, da sempre lasoluzione principale, mostra un po’ la corda. Poi, una mail solletica la
curiosità. La spedisce l’Unione sindacale di base(Usb), organizzazione nata dalla fusione di più sigle alcuni mesi fa, le cui segnalazioni sono in genere molto attendibili.
«Verrà consegnato con la busta paga di novembre il modulo con cui si richiede ai lavoratori metalmeccanici il pagamentodel “contributo sindacale straordinario”. Questo contributo, stabilito a seguito dell’Accordo 15 ottobre 2009 e del successivo Protocollo d’intesa 25 febbraio 2010, siglati da Fim-Cisl, Uilm e Federmeccanica, consiste in 30 Euro che vengono richiestiai lavoratori non iscritti ai sindacati a titolo di “quota associativa straordinaria a fronte dell’attività di negoziazione svolta”».
Una rapida verifica trova solo conferme. La Fiom Cgil, che non ha firmato quell’accordo, da qualche giorno distribuisce nelle fabbriche un volantino in cui invita i lavoratori a «non dare soldi a  chi non ti fa votare e cancella il contratto nazionale».
Tutto vero e in procinto di passare alla «fase operativa», dunque. Al punto che la stessa Fiom «ricorda» – probabilmenteanche alle aziende, che devono operare la «trattenuta» e girarla poi ai sindacati firmatari – che «ai propri iscritti non deveessere trattenuto nulla». Ma come funziona il meccanismo? Semplice: col «silenzio-assenso». L’azienda ti dà un modulo,se tu non lo rimandi indietro, te li scala dallo stipendio di dicembre. Un piccolo calcolo dà la misura del gettito complessivodi questa «tassa»: i metalmeccanici, secondo Federmeccanica (l’associazione delle imprese del settore) sono circa un milione e 600mila; togliendo le imprese artigiane, saranno intorno ai 1,4
milioni. Il 70% non è iscritto a nessun sindacato,quindi i 30 euro vanno moltiplicati per all’incirca un milione di persone: 30 milioni, dunque, da spartire pro rata tra Cisl e Uil(con qualche briciola al Fismic e all’Ugl). Non proprio spiccioli, insomma. Ma è una novità?

Una volta, a ogni contratto, sichiamava «costo del libretto»; veniva pagato dalle aziende e girato ai sindacati. Poi divenne «contributo sindacalestraordinario» messo in conto ai non iscritti. Non proprio una misura simpatica, ma dotata di qualche logica. Il contrattonazionale, infatti, è valido per tutti, iscritti o no a un sindacato. Se porta vantaggi, per esempio salariali, è giusto che chi ne beneficia paghi una sorta di una tantum. Nella piattaforma contrattuale del 2008 – quella che poi portò ad un accordounitario (Fiom, Fim, Uilm, ecc) – era stato addirittura inserito un punto specifico su questa «contribuzione straordinaria» in modo che tutti i lavoratori fossero avvertiti. Poi, in sede di riscossione,  valeva comunque il silenzio-assenso.

Ma quello fu un contratto poi sottoposto a referendum tra tutti i lavoratori (non solo gli  iscritti) e quindi «condiviso» dalla maggioranza dei metalmeccanici. Quello per cui vengono chiesti i «30 denari», invece, è stato firmato da sindacati che nel loro insieme hanno meno iscritti della sola Fiom; e che, soprattutto, non hanno voluto  sottoporre al voto confermativo – sapendo che sarebbe stato duramente contrario – della categoria. Si può aggiungere che è
un contratto «illegittimo» perché è ancora in vigore quello del 2008 (come indirettamente riconosce la stessa  Federmeccanica, che lo ha disdettato, a partire però dalla sua scadenza legale: il 31 dicembre 2011). È un contratto che porta pochissimi soldi: il primo gennaio di quest’anno, per dire, è stata inserita in busta paga una prima tranche di ben 14  (quattordici!) euro al terzo livello. E’ un contratto a cui – in settembre – sono state già concesse le «deroghe» peggiorative chieste dalla  Fiat (e a seguire da tutte le imprese del settore). Che, insomma, cancella di fatto – se non ancora di nome – il livello  nazionale del contratto. E per una
«negoziazione» così, che non ha mai autorizzato né approvato, un  metalmeccanico dovrebbe anche pagare?

Meglio sfilargliele di tasca in silenzio, nella «ricca» busta-paga di Natale, senza  farglielo capire.

Precari attenti, cercano di fregarvi

di Piergiovanni Alleva

Tra le molte novità negative che si leggono nel “collegato lavoro” – ossia  nella pessima legge antisociale sulla quale il centrodestra ha ritrovato, non per nulla, una transitoria unità – ne va subito segnalata, “a sirene spiegate”, una assai grave e quanto mai pericolosa per il destino di decine e centinaia di migliaia di lavoratori precari, e per la quale occorre subito organizzare un rimedio.
E’ infatti una questione da cui può derivare ai precari un grande male, ma che può anche – e questo è l’aspetto singolare – rovesciarsi nel suo contrario, in un grande fatto positivo, ossia nel sospirato ottenimento di un posto di lavoro stabile, se sindacati, partiti progressisti, associazioni democratiche e, ovviamente, gli stessi lavoratori sapranno esser capaci di un adeguato sforzo  sia informativo che organizzativo.

Ecco di cosa si tratta. Fino ad ora, ossia fino all’entrata in vigore del “collegato lavoro”, era possibile impugnare in giudizio i contratti di lavoro precario di qualsiasi tipo (a termine, di lavoro somministrato o interinale, di lavoro “a progetto” ecc.), che presentassero illegittimità formali e sostanziali e chiederne la trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato, in qualsiasi tempo successivo alla data di scadenza del contratto stesso, senza pericolo di incorrere nella “tagliola” del termine di decadenza di 60 giorni previsto, fin dalla legge n. 604/1966, per la impugnazione di un normale licenziamento da un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In altre parole, il lavoratore licenziato da un contratto di questo tipo doveva e deve “farsi vivo” con una lettera raccomandata di impugnazione entro 60 giorni dal licenziamento: se spediva questa lettera poi aveva cinque anni per iniziare la controversia giudiziaria, ma se non la spediva il suo licenziamento, anche se illegittimo, diventava inoppugnabile e irrimediabile.

Invece, il lavoratore precario che fosse stato estromesso dal posto di lavoro per scadenza del termine previsto nel contratto di lavoro precario poteva far valere la eventuale illegittimità e ottenere la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato anche dopo molti mesi e persino anni dalla sua estromissione dal posto di lavoro. Era giusta questa differenza e come si spiegava dal punto di vista tecnico-giuridico?

Certamente era giusta, perché rifletteva la diversità di atteggiamento psicologico tra i due lavoratori: quello titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che viene licenziato prende subito atto della circostanza che, seppur ingiustamente, la ditta non vuole avere più nulla a che fare con lui, che lo scaccia per sempre e quindi 60 giorni sono sufficienti per decidere se entrare o meno in controversia.
Il lavoratore precario il quale invece viene “lasciato a casa” per il fatto “obiettivo” della scadenza del contratto, senza che gli venga fatto addebito alcuno, spera sempre che la ditta lo richiami con ulteriori contratti precari, e che prima o poi lo stabilizzi: per questo è molto restio (…) ad impugnare il contratto precario appena scaduto, anche se sospetta che sia illegittimo, perché non ha, ovviamente, la certezza del risultato giudiziale e teme, intanto, di guastarsi con quel datore di lavoro, perdendo ogni speranza di richiamo.

Solo dopo molto tempo, a mesi o anni di distanza, quando ogni speranza sarà svanita, si deciderà liberamente alla controversia.
Dal punto di vista tecnico-giuridico la differenza si spiega perché il licenziamento è un atto di volontà del datore di lavoro, che scioglie un rapporto contrattuale esistente, e quindi va impugnato nei 60 giorni, mentre la comunicazione che “lascia a casa” il lavoratore precario per scadenza del termine non è un atto di volontà ma solo un atto “di scienza”, una sorta di fotografia della situazione. Però, se la situazione era in realtà diversa perché il contratto precario era per qualche motivo illegittimo e quindi automaticamente trasformato dalla legge in rapporto a tempo indeterminato, questa è la situazione che viene poi accertata dalla sentenza, senza bisogno di previa impugnazione nei 60 giorni della nullità del termine di scadenza. Contraddicendo a questa giurisprudenza consolidata, il “collegato lavoro” ha introdotto la necessità di impugnare con raccomandata il contratto precario nel termine di 60 giorni dalla sua (apparente) scadenza e una volta fatto questo di procedere poi in giudizio nei 270 giorni successivi. Dal punto di vista della teoria giuridica si tratta di obbrobrio (in linea generale le nullità possono essere fatte valere in qualsiasi tempo), ma quel che importa è la portata giuridico-politica dell’operazione: si tratta niente di meno che di una sorta di “sanatoria permanente” delle diffusissime illegittimità dei contratti di lavoro precari, perché il lavoratore dovrebbe impugnare entro 60 giorni dalla scadenza, e, come detto, quasi mai lo farà, nella speranza di esser richiamato.

E poi non potrà più farlo.
E’ un calcolo cinico e vile, del tutto degno di quel gruppetto di transfughi ex sindacalisti che sono divenuti gli esperti e protagonisti della politica antisociale del berlusconismo ed è un calcolo che occorrerà contrastare in sede di Corte costituzionale oltre che di programma per un futuro diverso governo.
Ma vi è di peggio, molto di peggio e veniamo finalmente al punto che massimamente interessa: cosa accade, allora, per i contratti precari illegittimi già scaduti da più di 60 giorni al momento di entrata in vigore del “collegato lavoro”? Sono decine e centinaia di migliaia i lavoratori ex titolari dei medesimi che avrebbero potuto liberamente ancora per mesi e anni in futuro richiedere la loro trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato domandando al giudice sia la reintegra in servizio sia le competenze arretrate. Ovviamente, neanche il “collegato lavoro” ha potuto, per evidenti ragioni di costituzionalità, stabilire una semplice cancellazione retroattiva del diritto di azione per l’impugnazione di rapporti precari già scaduti da più di 60 giorni ed allora ha previsto, invece, che possano essere impugnati entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore. Ciò si legge nell’articolo 32 comma IV, lettere b e d.

E’, comunque, un gigantesco colpo di spugna, una enorme sanatoria, perché trascorsi da adesso 60 giorni tutte le illegittimità passate saranno cancellati in quanto quelle centinaia di migliaia di lavoratori perderanno il diritto di far trasformare il vecchio contratto precario illegittimo in un rapporto dilavoro a tempo indeterminato valido per il passato e per il futuro. Ma poiché del “collegato lavoro” nessuno parla, ed a quei pochi che ne parlano èsemplicemente sfuggita questa maxi sanatoria annidata tra le sue previsioni, il piano del centrodestra e del padronato avrebbe, nell’insieme, ottime possibilità di riuscita.
Per fortuna c’è un rovescio della medaglia: quella previsione per cui bisogna, in sintesi, impugnare ora o mai più nei 60 giorni, è anche una gigantesca “chiamata alle armi”, una fortissima sirena di allarme, purché qualcuno voglia suonarla, che chiamerà a raccolta tutti coloro che sono stati titolari di rapporti precari, allo scopo di spedire subito, senza guardare per il sottile, una raccomandata di impugnazione dell’illegittimità del contratto precario e di richiesta di trasformazione a tempo indeterminato.

Poi, nei 270 giorni successivi, si faranno analizzare i contratti stessi da esperti che individueranno esattamente le illegittimità: non bisogna però temere di avere – con l’impugnazione immediata nei 60 giorni – “sparato a vuoto”, perché tutti gli avvocati lavoristi sanno che almeno il 90% dei contratti precari è illegittimo, alla stregua della stessa “legge Biagi” e perfettamente trasformabile in rapporti a tempo indeterminato.

La “cattiva novella” del “collegato lavoro” può allora divenire invece una buona, buonissima novella, perché darà la sveglia alle decine e centinaia di migliaia di persone, ex lavoratori precari, che oggi sono a casa nella depressione e nell’angoscia della disoccupazione. Essi non lo sanno, ma in realtà hanno in tasca il biglietto vincente della lotteria, ovvero il passaporto per un contratto di lavoro stabile, oltre che per un risarcimento. Basta che adesso corrano senza perder tempo, con il vecchio contratto precario scaduto in mano a far scrivere e spedire la lettera di impugnazione che deve partire nei 60 giorni. Ma dove devono andare in concreto? Da un esperto, da un legale lavorista, certamente, ma soprattutto da quelle organizzazioni, e cioè sindacati, partiti progressisti, associazioni democratiche alle quali spetta il compito complesso, ma tutt’altro che impossibile, di pubblicizzare al massimo con ogni mezzo di informazione quanto abbiamo qui spiegato, e poi di organizzare, con “banchetti”, “sportelli”, “punti di incontro” la raccolta delle firme e la spedizione delle raccomandate.

Sessanta giorni sono pochi – è vero – ma se vi è la volontà politica sono più che sufficienti, agendo tutti senza gelosie di organizzazione, in uno sforzo comune, al quale ci sembra si addica molto il detto secondo il quale «poco importa che il gatto sia nero o bianco; importa che prenda i topi».

L’arbitrato diventa vincolante

(dal sole 24 ore, ottobre 2010)

Tra le novità di maggior rilievo nel collegato lavoro vi sono certamente le norme in materia di arbitrato. La nuova disciplina contempla diverse forme di arbitrato, alle quali possono accedere tutti i lavoratori subordinati, pubblici e privati, i collaboratori coordinati e continuativi, gli agenti che operano in forma personale.
Oltre all’arbitrato che può instaurarsi durante il tentativo di conciliazione (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), vi sono infatti: a) l’arbitrato previsto dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, i quali possono decidere le sedi e le modalità di svolgimento della procedura; b) l’arbitrato presso le camere arbitrali costituite dagli organi di certificazione; c) l’arbitrato che si svolge innanzi a un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale costituito, a iniziativa delle parti individuali del rapporto di lavoro, per risolvere una specifica controversia. Per quest’ultima forma di arbitrato la procedura è dettagliatamente disciplinata. Il collegio è composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un presidente scelto di comune accordo o, in mancanza, dal presidente del tribunale competente per territorio. La procedura si attiva con un ricorso, che indica l’oggetto della domanda, le ragioni sulle quali si fonda, i mezzi di prova e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, pur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari. Sono stabiliti i termini per il deposito di memorie e repliche. Vi è quindi un’udienza in cui il collegio tenta la conciliazione, interroga le parti, ammette e assume le prove. La controversia è decisa entro 20 giorni dall’udienza finale con un lodo. Ciascuna parte paga l’arbitro da essa nominato e metà del compenso del presidente, fissato nel 2% del valore della controversia. Il lodo può disporre che la parte soccombente rimborsi all’altra le spese legali e arbitrali. Trattandosi di arbitrato irrituale, il lodo ha valore di un contratto tra le parti, che può validamente disporre anche di diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi. Il lodo arbitrale è annullabile dal giudice, su ricorso delle parti, solo in determinati casi: se la convenzione arbitrale è invalida o se gli arbitri hanno deciso su conclusioni che esorbitano da essa; se gli arbitri sono stati nominati irregolarmente o non potevano essere nominati; se gli arbitri non si sono attenuti alle regole stabilite dalle parti; se non è stato osservato il principio del contraddittorio.

Ma la novità più controversa del collegato consiste nella possibilità di pattuire clausole compromissorie, con le quali lavoratore e datore di lavoro si impegnano a far decidere eventuali controversie anche future ad arbitri, invece che al giudice del lavoro. La validità della clausola è subordinata a due condizioni: la certificazione dell’accordo individuale da parte delle apposite commissioni (che devono accertare l’effettiva volontà delle parti) e la previsione di questa possibilità nei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Per tener conto dei rilievi formulati dal presidente della Repubblica, è previsto che la clausola compromissoria possa essere pattuita solo una volta concluso il periodo di prova, ove previsto, ovvero decorsi 30 giorni dalla stipulazione del contratto di lavoro e non possa riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. Davanti alle commissioni di certificazione le parti possono farsi assistere da un legale o da un rappresentante sindacale. Se, trascorsi 12 mesi dall’entrata in vigore della legge, non sono intervenuti accordi collettivi che prevedano e disciplinino la possibilità di stipulare clausole compromissorie, il ministero del Lavoro convoca le associazioni sindacali comparativamente rappresentative per promuovere un accordo. Se ciò non è possibile, decorsi sei mesi dalla convocazione, individua con decreto in via sperimentale, tenuto conto delle risultanze del confronto sindacale, le modalità di attuazione della norma, fatta salva la possibilità che i contratti collettivi integrino e deroghino, in un momento successivo, le disposizioni ministeriali.