Lavoratrici delle pulizie dell’Università Statale: tra Cgil e caos appalti non si mangia né si lavora!

Stamattina una cinquantina di persone, tra lavoratrici, lavoratori e studenti della Statale di Milano, si sono riuniti in presidio e assemblea di fronte all’ingresso dell’università: la protesta riguarda il personale addetto alle pulizie, da più di un anno in attesa di risposte sul proprio futuro lavorativo e da oltre tre mesi senza salario. Tra errori dell’amministrazione universitaria e caos nel sistema degli appalti di gestione dei servizi, le lavoratrici si sono trovate infatti per un anno in una condizione di incertezza e smarrimento, senza garanzie né tutele.
Nonostante si siano rivolti anzitutto alla Filcams, il sindacato si è dimostrato latitante e temporeggiatore, e l’atteggiamento di questa mattina lo rispecchia appieno. Tra le facce stupite delle lavoratrici e degli studenti, perfetti sconosciuti (“mai visti in un anno di vertenza” dicevano le stesse lavoratrici), presunti sindacalisti di mestiere, si sono presentati cercando di capeggiare il presidio per gestire direttamente il malcontento e la discussione con l’amministrazione.
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Cronaca di un presidio

h. 17 iniziamo ad allestire il  presidio all’angolo di Via Ferrante Aporti e Viale Brianza, proprio sotto la torre che da 45 giorni è diventata la casa di Carmine, Oliviero e Peppe i tre uomini che sono diventati il simbolo degli 800 lavoratori Wagon-Lits licenziati. Molti li abbiamo conosciuti proprio sotto la torre in questi giorni: ognuno con la propria storia, tutti con la voglia di non fare un passo indietro. E con la sensazione ormai diffusa di una battaglia che non riguarda solo questi lavoratori e le loro famiglie, ma che ci riguarda tutti da vicino. Stiamo parlando del diritto alla mobilità e della possibilità di tenere collegata tutta la penisola: queste le motivazioni che hanno spinto la Rete San Precario, il Popolo viola e altri solidali a voler tracciare un ponte simbolico tra la torre e il resto della città mettendo in piedi un presidio con interventi, musica e pezzi teatrali.
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Precari nella scuola: San Precario fa il miracolo, la Gelmini no

All’epoca della brillante idea del Collegato Lavoro una delle categorie più colpite fu proprio quella dei precari della scuola e in particolare dei docenti: in fretta e furia infatti si dovevano reclamare i propri diritti, magari per anni di precariato (in alcuni casi decenni), per non correre il rischio di vederli scomparire in un grande buco nero creato dalla legge del Governo Berlusconi per nascondere i problemi.

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Una vita da borsista all’Istituto Mario Negri “Qui di assunti ci sono solo le segretarie”

da ilfattoquotidiano di Claudia Campese

29 giugno 2011

Hanno gli stessi obblighi di un lavoratore subordinato ma in realtà la loro borsa prevede 750 euro al mese. “Devono ancora imparare”, si giustifica il direttore Silvio Garattini. “E intanto nessuno ci versa un euro di contributi”, denunciano i ricercatori

“Noi non conosciamo il fenomeno del precariato. In 50 anni non abbiamo mai avuto questo problema”. E’ fiero Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche ‘Mario Negri’. Il “direttorissimo” come lo chiamano i ricercatori del centro, che precari invece si sentono eccome. “Lì dentro di assunte ci sono solo le segretarie”, scherzano alcuni. E i capi, dirigenti e luminari di uno degli istituti italiani – un ente morale no profit – più prestigiosi e noti anche all’estero. I suoi lavoratori sono per lo più borsisti – circa 168 solo nella sede di Milano – che percepiscono 750 euro al mese. Alcuni da più di cinque anni, al di là di ogni ragionevole periodo formativo, ricordano. Laureati o dottorandi, alcuni con esperienze lavorative già maturate. Giovani che “quando arrivano non sanno fare nulla e hanno bisogno di aiuto e consiglio”, invece, per il professor Garattini. Borsisti che devono chiedere permessi, hanno orari rigidi e ferie programmate, ma non un contratto. “E intanto nessuno mi versa i contributi”, fa notare uno di loro.

“Lavorano otto ore come tutti, usano i laboratori e hanno a disposizione le attrezzature come gli altri”, spiega disinvolto il ‘direttorissimo’. “Ma non sono mica come i ricercatori dell’università che fanno anche lezioni ed esami”, aggiunge un po’ scandalizzato. Eppure “l’attività di laboratorio è un’attività pienamente lavorativa”, spiega Massimo Laratro, avvocato del Lavoro del collettivo ‘San Precario’, a cui si sono rivolti alcuni dei ricercatori del ‘Mario Negri’. Quello che si svolge al centro, continua, è un “chiaro rapporto di lavoro subordinato, dove si può pretendere e obbligare”. Al contrario di una borsa, dove si dovrebbe anche studiare, guardare e imparare.

E all’istituto di obblighi e pretese ce n’è parecchi. Tutti i borsisti sono dotati di un badge, con cui viene controllato che svolgano le loro otto ore giornaliere. Impossibile mangiare in fretta e uscire mezz’ora prima: la pausa pranzo è di un’ora, tassativa. Testimone la ‘strisciata’. “Il badge serve per ragioni di sicurezza, – si giustifica Garattini – per sapere chi è nella struttura e chi no”. “Nessuno ha un obbligo”, dice il direttore. Come quella collega di cui tutti raccontano. Una ricercatrice che, con regolare certificato medico, doveva uscire dieci minuti prima dell’orario di chiusura una volta alla settimana, per alcune visite mediche. Al momento del rinnovo per lei la borsa è stata tagliata: tre mesi anziché un anno. Perché all’istituto funziona così: continui permessi da far firmare ai capi per entrate, uscite o malattie; nessuna flessibilità sugli orari, nemmeno per i pendolari; l’obbligo di prendere le ferie ad agosto, quando l’istituto chiude e c’è meno lavoro. Regole, per altro, tramandate oralmente o poco più. “Non esiste nulla di scritto – racconta un borsista -, le comunicazioni ci vengono date solo via email”.

“Siamo divisi in laboratori e unità, con un diretto superiore e faccio quello che mi dice il mio capo”, racconta un altro ricercatore. Non proprio quello che gli era stato prospettato quando si è iscritto a uno dei diversi corsi che danno accesso alla borsa del ‘Mario Negri’. Come quello organizzato con la regione Lombardia, della durata di otto mesi – da ottobre a giugno – per tre anni. “Che poi al centro viene spalmata su 12 mesi”, continua il borsista. Dopo la scuola, che per Garattini serve ad “apprendere”, la situazione però non cambia. “Fossero solo tre anni potrei capirli – commenta un ricercatore -, ma io ormai lavoro qui da più di cinque anni”. E senza prospettive certe. “Qui è pieno di pensionabili e cariatidi che non si sa se vengano pagati o meno”, raccontano dal centro. “Una volta – continua un borsista – ho sentito uno dei capi che diceva: ‘Poverini, prendono troppo poco di pensione’ per giustificare la loro presenza”. E “io così sono costretto a stare ancora a casa con i miei – conclude – nonostante abbia trent’anni”. Anche perché per i borsisti sono previsti dei dormitori, ma per accedervi bisogna scalare 300 euro al mese alla loro busta paga da 750.

Il problema dal punto di vista legale, spiega Laratro, non è tanto la forma del foglio di carta firmato dai lavoratori – che li indica come borsisti -, ma la sostanza di come svolgono la loro giornata all’istituto. Tra capi, permessi e accesso ai laboratori, “la loro prestazione è continua – prosegue il legale -. Sono destinati a progetti che devono essere eseguiti in tempo e su cui devono relazionare”. Esattamente quello che fa un lavoratore assunto, con uno stipendio e dei contributi. E allora perché farlo? “Quello del ricercatore rientra tra i lavori ad alta vocazione – spiega Laratro -. Si accettano condizioni ignobili perché si crede in quello che si fa”. Nonostante venga “svalorizzato”. Tanto nel settore pubblico, quanto nel privato. “E’ vero, i cosiddetti baroni stanno all’università – conclude Laratro -, ma fuori è uguale”.

Fuori BIT? Dentro precari

Fuori salone anche nel turismo

La Borsa Internazionale del Turismo vuole diventare un secondo il Salone del Mobile. Con l’aiuto del Comune di Milano esce dai padiglioni della Fiera di Rho, presentando eventi e appuntamenti culturali in tutta la città. Aperitivi, mostre, happening e buffet saranno concentrati tra il 18 e il 19 febbraio e coinvolgeranno diversi luoghi, tra i quali la Rotonda della Befana e la Biblioteca Ambrosiana, Piazza del Duomo, via Dante.

Stagisti o schiavi?

Peccato che dietro alle luci degli spettacoli si nasconda una verità tanto scomoda da restare nascosta. Nessun media vi dirà che dentro gli stand di Pero, all’ombra delle luci degli eventi del FuoriBit, così come in Fiera Milano Spa, vi siano migliaia di precari, di standisti in nero, di lavoratori senza diritti.
Come i ragazzi neolaureati spremuti e poi gettati dall’ente del turismo francese di via Tiziano, una catena di montaggio della precarietà dove decine di stagisti lavorano per 150 euro al mese per ricevere delle ‘referenze’ sul curriculum.

Pagati con…le referenze

L’esperienza formativa si riduce a un odioso sfruttamento che termina con la sostituzione di un nuovo stagista, in un meccanismo perverso che consente ai manager notevoli risparmi, premiati con benefit e riconoscimenti economici. Ognuno dei 9 dipendenti a tempo indeterminato dell’ente utilizza a suo piacimento uno stagista a testa, nonostante le possibilità di essere confermati siano vicine allo 0.
‘A 150 euro al mese ne trovo quanti ne voglio’, non si vergogna di dire l’impunito direttore dell’Ente di fronte alle timide rimostranze dei ricattati di turno. Una specie di moderna servitù feudale ancor più degradante se si pensi che gli stagisti francesi, alla faccia del principio di eguaglianza tra i cittadini dell’Unione Europea, vengono remunerati con 400 euro al mese.

Le mani sulla città

La denuncia dei precari dell’Ente del turismo francese rappresenta l’ultima metastasi di un tumore maligno che sta intaccando la struttura di tutto il terziario milanese. Lo stesso responsabile del licenziamento, mascherato da cassa in deroga per un anno, di 85 lavoratori di Fiera Milano Spa, nonostante l’ente sia strettamente controllato dalle lobby/partito lombarde. Anche in quel caso la crisi usata per zittire i lavoratori non aveva impedito lussuosi banchetti della dirigenza, ignobili spese di rappresentanza, un’impunità tanto evidente da essere usata come monito ai lavoratori ‘risparmiati’ dalla riorganizzazione.

Modello immagine: Fiera/Expo

Il cancro da Fiera Spa oggi si diffonde in tutta la metropoli, dettando i ritmi e sperimentando il modello economico dell’evento/immagine che sostituisce la realtà con le sensazioni, i comunicati stampa alla cruda verità. Quella delle centinaia di standisti che varcano la soglia dei padiglioni, spesso lavoratori in nero sottopagati, come ha recentemente dimostrato uno dei troppo rari controlli della guardia di finanza. Precari che rischiano ogni giorno la vita per meno di 10 euro all’ora. Ecco quale modello si nasconde dietro il cerone dell’Expo, sotto gli entusiastici proclami dei politici ripetuti quotidianamente dai media. Un disegno autoritario che maschera il ricatto a cui è sottoposta maggioranza. Un sistema per far profitti che i dirigenti vorrebbero moltiplicare per le decine di eventi che accompagneranno l’Expo, migliaia di aziende, centinaia di migliaia di stagisti, precari, finte partite iva, soci di cooperative fuffa e associazioni ap-profit.

Come in Egitto

Fermiamo questo Suv impazzito prima che sia troppo tardi. Togliamo la patente a questi irresponsabili guidatori, pronti a far scattare l’air-bag all’ultimo momento per salvarsi. Non possiamo permetterci di fallire: non abbiamo redditi di riserva in Svizzera, come loro. Togliamo il volante dalle mani di manager buoni solo di far pagare a precari e disoccupati i propri fallimenti: la mancata crescita, il crollo della produttività, la competitività stracciona, l’impoverimento economico e culturale dell’Italia. Salviamo il nostro futuro. Costruiamo insieme lo Sciopero Precario per una nuova civiltà di diritti, eguaglianza, libertà.