Cgil, Pd e sinistra insorgono. Cisl e Uil (e Ugl) invece approvano
Non abrogato ma più semplicemente  aggirato. Mai nominato, l’articolo 18 si avvia sulla strada di una  rapida archiviazione. Dopo due anni di spola parlamentare, il cosiddetto  «collegato lavoro» (il disegno di legge 1167 B) è arrivato ieri in  lettura definitiva al senato, l’articolo incriminato (quello su  conciliazione e arbitrato) è stato approvato in serata e già oggi  l’intero provvedimento potrebbe diventare legge. Il governo riesce  nell’impresa fallita otto anni fa e lo fa senza mai nominare l’oggetto  in questione. L’articolo 18 viene di fatto svuotato, reso inesigibile,  sostituito da un arbitrato cucito su misura sull’imprenditoria nostrana.  Non decade ma servirsene sarà sempre più difficile. 
Il ministro  Sacconi è uomo ambizioso e ieri, dal palco del XV congresso Uil ha  detto: «Abbiamo i titoli per andare oltre verso un nuovo statuto dei  lavori». Nessuno in platea ha fiatato. E sulle polemiche levatesi,  Sacconi è sbottato: «L’ennesima prova della malafede di chi vuole sempre  accendere la tensione sociale. Non per nulla tutti, tranne la Cgil,  hanno condiviso questa norma». Difficile per un organizzazione sindacale  difendere una norma che consente di sostituire il reintegro del posto  di lavoro (in caso di licenziamento senza giusta causa) con una più  comoda ammenda, ma Cisl, Uil, e anche Ugl, ci riescono. La Cgil anche  ieri ha denunciato l’operato del governo, puntando il dito su tutte le  altre «norme deregolatorie» che il «collegato» introduce: «Un insieme di  norme peggiorative (tra cui quella dell’apprendistato a 15 anni) che si  aggiungono a quelle sull’arbitrato, la certificazione e il ruolo del  giudice del lavoro – le definisce il segretario confederale Fulvio  Fammoni – nel tentativo di capovolgere i fondamenti del diritto del  lavoro, aggirare norme come quelle dell’articolo 18 nate per tutelare i  più deboli e consumare così una sproporzione evidente tra i diritti del  lavoratore e quelli del datore di lavoro».
L’operazione chirurgica  del governo – come si spiega molto chiaramente a pagina 10 di questo  giornale – consiste nell’allargamento delle maglie dell’«arbitrato»: in  sostanza, in sede di stipula e di certificazione del contratto di  lavoro, quando dunque i rapporti di forza sono con ogni evidenza  sbilanciati dalla parte del datore di lavoro, potrà essere inserita una  clausula in cui si dice che eventuali controversie si risolveranno non  davanti a un giudice, e dunque in ottemperanza alla legge, ma davanti a  un «arbitro», in ottemperanza a ben più generici criteri di «equità». Il  datore di lavoro potrà dunque imporre la strada dell’arbitrato ai nuovi  assunti. «Solo per i contratti certificati – replica Sacconi – … E  poi non dobbiamo pensare che il lavoratore sia un minus habens». 
Trovare  «un certificatore che attesti la reale volontà delle parti» sarà un  gioco da ragazzi per le imprese. Quanto invece a chi ha già un contratto  a tempo indeterminato, il dettato di legge, come spiega Tiziano Treu  (Pd), prevede che l’arbitrato potrà essere introdotto, tramite accordo  tra le parti, anche in corso d’opera. A introdurre il ricorso  all’arbitrato saranno i contratti collettivi (ma se le parti non trovano  un accordo interviene il ministro per decreto). Dietro questa foglia di  fico cercano riparo sia Cisl che Uil: più spazio alla contrattazione  collettiva! Ma è ancora Treu a spiegare che esiste anche una seconda  strada, quella di un accordo individuale tra il singolo lavoratore e il  suo datore di lavoro. «L’articolo 18 potrebbe diventare un optional»,  conclude l’ex ministro del lavoro.
Stefano Fassina, responsabile  economico del Pd, definisce il tutto «un disegno che guarda al passato  più lontano per un mercato del lavoro selvaggio, diametralmente opposto a  quanto servirebbe per spingere le nostre attività produttive verso una  competizione di qualità». Antonio Di Pietro parla di «un esecutivo che  fomenta violenza contro il mondo del lavoro», e rilancia lo sciopero  generale indetto dalla Cgil per il 12 marzo («parteciperemo con forza e  convinzione»). Paolo Ferrero (Prc) e Roberta Fantozzi (responsabile  lavoro del Prc) decidono per «un atto estremo di protesta», lo sciopero  della fame, e annunciano una battaglia refenderaria che riguarderà anche  questo disegno di legge. Stigmatizza il disegno di legge anche Nichi  Vendola (Sel): «È una vergogna, e a questo punto diventa fondamentale  che tutte le forze democratiche e di opposizione si impegnino affinche i  diritti dei lavoratori non facciano un salto indietro di mezzo secolo, a  partire dal sostegno allo sciopero generale convocato dalla Cgil per il  12 marzo».
di Sara Farolfi








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