L’effetto Berlusconi

Thanx: Alfabeta2.04 – mensile Novembre 2010
Anomalia Italia

Slavoj Žižek
L’effetto Berlusconi
Intervista di Antonio Gnoli

Si può analizzare un fenomeno mediatico, politico, culturale qual’è da quasi un ventennio Silvio Berlusconi, senza lasciarsi condizionare dal fastidio che l’«oggetto» in questione sovente provoca in chi lo analizza?
Non è una forma di neutralità che si invoca, ma una connessione più attenta tra superficie e profondità: diciamo tra il volto-maschera, al quale c’ha abituati nelle sue molteplici apparizioni televisive e l’anima-merce, nella quale albergano desideri, finzioni, progetti. Per molti italiani egli è l’uomo del sogno: figura temibile e consolatoria, a un tempo, le cui parole, quando vengono pronunciate, hanno per lo più un carattere fuggitivo. Nello schema generale del suo linguaggio rassicurante (legato all’idea del fare) le variazioni sono minime, e la mobilità è massima. Nel senso che Berlusconi tende a dire sempre le stesse cose, ma nel dirle – come accade nei sogni – le parole hanno un carattere volatile e lievemente ipnotico. Quel linguaggio diverte e rassicura coloro che ne sposano i contenuti. Egli incarna un potere «grottesco»: esilarante, minaccioso, imprevedibile, efficace. C’ha colpiti il modo col quale, qualche tempo fa, sulla «London Review of Books» Slavoj Žižek riportava quel potere all’ironica immagine di un Panda, protagonista di un cartoon di successo. Ed è la ragione per cui abbiamo voluto incontrare questo intellettuale che con grande libertà ha messo assieme Lacan e il cinema, indagato Freud e Marx e preferito il moderno al «post». Žižek non si considera un esperto di Berlusconi e soprattutto – tiene a precisare – pensa che per molti versi il problema non sia lui, ma che lo stesso Berlusconi sia l’effetto di un processo più generale che non coinvolge solamente l’Italia. Il discorso, dunque, non può che cominciare dall’intreccio tra due figure cardine della modernità: politica ed economia.

Lei sostiene che sia stata recisa ogni connessione fra democrazia e capitalismo. Com’è accaduto? E cosa sostituisce oggi quel legame?
Sì, nella mia interpretazione questo accade soprattutto in Cina, anche se non solo lì. Qualche tempo fa il mio amico Peter Sloterdijk mi confessò che dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, la sua risposta sarebbe Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore. È stato lui a inventare quella pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare «capitalismo asiatico»: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro ma che può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia. Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le riforme e si convinse che quel modello andava applicato alla Cina.

La Cina, insomma, è il sorprendente laboratorio nel quale si progetta il nostro futuro?
Diciamo che ci sono alcuni elementi che vanno in quella direzione. Se un nuovo modello si afferma e condiziona mondi culturalmente lontani, non si può non valutarne la forza di penetrazione. Sia Sloterdijk che io pensiamo che la scissione tra democrazia e capitalismo si stia lentamente espandendo. Se ne osservano elementi in Russia e, sebbene sarebbe chiaramente folle sostenere che l’Italia sia già uscita dalla democrazia, vedo anche qui tendenze non tanto alla sua sospensione formale, quanto alla sua neutralizzazione: si tende a rendere la democrazia irrilevante. Il punto è fare in modo che la gente accetti che i meccanismi democratici non siano davvero importanti, che esprimano un rituale completamente vuoto.
Del resto vedo aspetti di questo processo anche negli Usa. Quando esplose la crisi finanziaria, fu messo in discussione il primo grande intervento pubblico da, mi sembra, 700 miliardi di dollari. Alla prima votazione – Bush era ancora Presidente – il Congresso votò contro con due terzi dei suffragi. Cosa accadde? L’élite politica di entrambe le parti – Bush, Obama, McCain eccetera – si rivolse al Congresso più o meno con questi toni: «Ascoltate, non abbiamo tempo per questi giochetti democratici, questa roba bisogna approvarla e basta»; una settimana dopo, il Congresso rivotò ribaltando totalmente la sua precedente decisione. Non è dunque questione di individui pazzi o autoritari: no, c’è qualcosa nel capitalismo contemporaneo che spinge in questa direzione.

Si può dire che, rispetto al passato, la situazione si sia enormemente complicata. La famosa «globalizzazione» ha dilatato problemi che tradizionalmente trovavano una soluzione
nell’ambito degli Stati-Nazione. Oggi non è più così. Con quali effetti per la democrazia?

Credo che i meccanismi democratici non siano più sufficienti ad affrontare il tipo di conflitti che si prospettano all’orizzonte (sull’ecologia, le grandi migrazioni, le rivolte locali, ma anche altri relativi al funzionamento intrinseco del capitalismo: dalla proprietà intellettuale alla crisi finanziaria). Sembrano richiedere un «governo di esperti» molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare, e lo metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi. Ma è un esito molto triste: se finora, nonostante tutto, c’era un buon argomento a favore del capitalismo, ovvero che prima o poi, magari dopo qualche decennio di dittatura come in Sud Corea o in Cile, l’avvento del capitalismo avanzato avrebbe poi implicato la democrazia – ecco, tutto questo non accade più. Ed è un fenomeno davvero nuovo, un’epoca nuova, direi. Ma il punto, si badi bene, non è criticare la democrazia in sé; bisogna comprendere come la democrazia si stia autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico.

Il che ci porta all’oggetto del nostro incontro. A quale genere di democrazia ha dato dunque vita Berlusconi?
Mi sento di ribadire che forse voi italiani vi concentrate troppo su Berlusconi come causa dei mali che vi affliggono. In realtà bisogna vederlo come effetto. Non dimentichiamo le circostanze in cui è «sceso in campo»: lo scandalo di Mani pulite e il vuoto di potere che si creò con la scomparsa di un’intera élite politica. Certo, fin dall’inizio il suo progetto ha presentato elementi originali: Berlusconi ha davvero inventato qualcosa. Quel che ha introdotto è, formalmente, ancora una democrazia ma che, come tutti sappiamo – questo punto è stato trattato fino allo noia –, funziona in modo diverso: è, voglio dire, una democrazia ipermediatizzata, soggetta allo spettacolo pubblico. Ma c’è un secondo aspetto, per me molto importante, su cui vale la pena richiamare l’attenzione: la scissione del processo politico in sé – il processo di governare un paese, il decision making – dallo spettacolo mediatico, dalla dimensione dello scandalo pubblico, con tutte le sue conseguenze.

Lei allude agli scandali sessuali che hanno pesato sulla figura del premier?
Sì. Ma occorre capire perché quando c’è uno scandalo sessuale, tutti si occupano di quello, ma in maniera completamente dissociata da ciò che veramente accade. Berlusconi – non dovremmo dimenticarlo – non è solo un clown: ci sono cose che accadono davvero, decisioni politiche gravi che vengono realmente prese. Questo gap caratterizza la politica oggi.

Questa «dissociazione» impedirebbe di cogliere l’effettiva strategia del potere berlusconiano?
È come se mi concentrassi sull’albero, perdendo di vista la foresta. Un potere è sempre un risultato complesso. Si pensi a un altro aspetto originale di Berlusconi. È riuscito a marginalizzare la sinistra, e a stabilire una nuova polarità politica fra quello che potremmo definire un orientamento liberale neutro e tecnocratico e una reazione populista. Questo è perfettamente chiaro in Polonia: l’attuale premier Donald Tusk è un puro tecnocrate liberal e i due gemelli Kaczyn´ski (almeno fino a quando l’incidente aereo non ha sciolto definitivamente questa coppia), – sorta di Tweedledee e Tweedledum, i due matti di Alice nel paese delle meraviglie, saliti al potere – populisti al massimo grado. Berlusconi fa qualcosa di più: riunisce le due polarità. È certamente un tecnocrate brutale, efficientista, ma allo stesso tempo presenta chiari elementi populisti. Forse questa combinazione è politicamente la più pericolosa, ed è in questa direzione che egli si sta muovendo. Nel momento in cui Berlusconi ha occupato tutto lo spazio, non ne lascia all’opposizione: è la magia del funzionamento dello spazio simbolico. Naturalmente non sto affermando che siete uno Stato di polizia: l’Italia funziona ancora, ma è tuttavia avvertibile questo effetto di assenza di spazio, che mette l’opposizione nella difficoltà di definire se stessa. Ci si può chiedere a questo punto se ci sia davvero, nell’attuale sistema, una grande alternativa a Berlusconi. Può la politica liberista offrire di più che un «Berlusconi dal volto umano»? Io credo di no.

Lei sostiene che il modello Berlusconi è un oggetto molto più complicato di ciò che appare e che, in qualche modo, impone un linguaggio anche a chi è antiberlusconiano?
Non si può prescindere dallo spazio simbolico che egli ha costruito e che condiziona qualunque azione che cerchi di ridurne l’efficacia. Ciò che suggerisco è di non farsi comunque ipnotizzare dallo spettacolo in corso, dall’aspetto clownesco, dall’evidente corruzione: cerchiamo di rivolgerci le domande essenziali. Certo, è un fatto forse unico nei tempi moderni che un premier, attraverso i suoi avvocati, dica di esser pronto a dimostrare in tribunale di non essere impotente. Ma è molto più importante l’altra faccia di Berlusconi. Quegli aspetti che potrebbero apparire secondari, ma che per me sono presagi inquietanti. Per esempio – mi chiedo – quanti italiani sanno di vivere da tempo formalmente in uno stato di emergenza, proclamato per poter schierare l’esercito in aree civili? Se si combina questo con le ronde, con quello che è accaduto all’Aquila, con la vicenda dei rom, se ne possono trarre conseguenze inquietanti. Non dico che domani Berlusconi proclamerà l’emergenza nazionale e che vi risveglierete in uno stato di polizia, no: in un certo modo, Berlusconi sta portando a compimento quel che ha fatto Bush negli Stati Uniti. Non avremo il caro vecchio stato d’emergenza – discorsi alla nazione, coprifuochi eccetera – la vita andrà avanti normalmente, con le sue permissività, i suoi piaceri, i suoi sogni, ma sotto l’ombra di misure eccezionali, impiegate, si potrebbe dire, proprio per proteggere la cosiddetta «libertà», il piacere. È una sorta di autoritarismo permissivo, che ha per formula «più divertimento e più misure straordinarie»: potrebbe essere il nostro futuro. Dovremmo esserne consapevoli, ed è certamente cruciale leggere tutta la Berlusconi-commedia su questo sfondo di misure graduali da stato di emergenza. Ma ripeto ancora: non bisogna pensare che la causa di tutto ciò sia Berlusconi. Se lo fosse la soluzione sarebbe relativamente semplice: basterebbe vincere le prossime elezioni. Il problema è più profondo.

Quest’idea di «autoritarismo permissivo» fa pensare al modo in cui, in una delle sue lezioni, Foucault declinò l’esercizio della «sovranità grottesca». Soprattutto in periodi di decadenza, il potere acquista un aspetto di terrificante comicità. Foucault usò la parola «ubuismo», dall’Ubu roi. L’uso che Berlusconi fa del potere crede sia in qualche modo connesso a questa idea?
Già da molto tempo nella letteratura e nel cinema troviamo quest’idea di «ubuizzazione» del potere. Vi sono elementi di ubuizzazione nel leader nordcoreano Kim Jong-il, per esempio, ma con una differenza fondamentale: Kim è Ubu roi per noi, ma non per se stesso. Non puoi ridere di lui, laggiù. Più vicino a noi, elementi di questo tipo c’erano anche in Reagan e Bush: anch’essi, come più tardi Berlusconi, giocavano ironicamente con la loro stessa stupidità, prendendosi lievemente in giro. Berlusconi non ha inventato nulla, ha solo spinto le cose alle estreme conseguenze: ma questa ubuizzazione era già in atto, ed è il segno di un profondo cambiamento nelle dinamiche simboliche del potere.

E uno dei certificati di nascita è stato prodotto negli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti, questo cambiamento si è avviato dopo Richard Nixon. Oggi verrebbe quasi voglia di dire che Nixon sia stato un grande Presidente. Certo, era corrotto. Ma se si misura il grado di essere di sinistra sulla semplice base di quanto lo Stato investe nell’istruzione, la salute, il welfare, allora Nixon è stato il Presidente più di sinistra degli Stati Uniti. Ha normalizzato i rapporti con la Cina, cambiando la geopolitica mondiale. Al riguardo mi sento di sposare una teoria leggermente paranoica: forse la vera ragione per cui cadde non fu ilWatergate in sé, ma la volontà dell’élite di farlo fuori, probabilmente per la «pacificazione» avviata con il grande paese comunista. In ogni caso, ilWatergate fu una fine adeguata per l’ultimo grande Presidente edipico e tragico della storia americana. La sua caduta fu una vera tragedia, la sua dignità venne distrutta. Era ancora una figura di «nobile Presidente» che cade. (Anche a Carter è accaduto qualcosa di analogo, ma la sua fine è stata meno tragica). Con Reagan si inaugura l’ubuizzazione, Reagan è il primo Ubu roi. Ma Berlusconi è andato più lontano: è il leader che, per così dire, si prende gioco di se stesso. Per questo, compito dell’opposizione dev’essere non tanto prendersi classicamente gioco del leader – come avveniva, per esempio, con le barzellette durante lo stalinismo – ma proprio ignorare questo aspetto, far capire che c’è poco da scherzare, che accadono cose gravi.

Questa serietà minacciosa, alla quale lei fa riferimento, non può essere però separata dal lato diciamo farsesco, greve e, perfino in un certo senso, gratuito. Gratuito, al punto, da apparirci come un fraintendimento della libertà. In fondo, tra coloro che plaudono al berlusconismo ci sono quelli che dicono: evviva, lui c’ha liberati dai lacci delle regole istituzionali e dall’eccesso di Stato.
Sono certo che Berlusconi ne sarebbe disgustato: ma uno come lui, con i suoi aspetti farseschi e ubuizzati, può diventare Presidente solo dopo la ribellione antiautoritaria del ’68 – il che la dice lunga sui limiti del ’68. Quali erano i tre grandi obiettivi di quella ribellione? L’alienazione sul posto di lavoro, la famiglia e la scuola viste come strumento dell’oppressione borghese. Siamo o no consapevoli dell’abilità con cui il capitalismo contemporaneo ha integrato in sé questi aspetti di ribellione, e quanto esso sia il vero erede del ’68? Quanto alle industrie, oggi non facciamo più ricorso al fordismo, e se ne abbiamo bisogno lo esternalizziamo in Cina o in Indonesia: oggi si parla di «produzione postmoderna», di «progettualità dinamiche», di «gruppi di lavoro interattivi». Persino l’università non è più il sacrario della conoscenza organizzata dallo Stato oppressivo, ma è decentralizzata e privatizzata, secondo l’idea dell’ «educazione permanente»: si segue un corso di qua e uno di là, tutto è finalizzato a scopi pratici. O si pensi alla sessualità: ma a chi importa della famiglia, oggi, Berlusconi per primo? Lo si fa in giro un po’ come capita o come si può. Insomma, le richieste del ’68 sono state esaudite, e il risultato è molto peggio di quel che c’era prima.

E questo concerne anche il potere nella sua massima espressione?
Anche questa «ubuizzazione del potere» fa in qualche modo parte del riassorbimento del ’68 nel sistema. Una delle tendenze più tipiche del ’68 francese era la messa in ridicolo del potere; e non è un caso che proprio in Francia Coluche, il celebre comico, annunciò nel 1980 di volersi candidare alla presidenza. La sua propaganda si basava sulla continua ridicolizzazione di se stesso: teneva discorsi pseudoelettorali sulla tazza del gabinetto, e alla fine scaricava lo sciacquone. A un certo punto, prima che si ritirasse (secondo alcuni costretto da Mitterand, e di mezzo ci fu anche la misteriosa morte di un collaboratore), i sondaggi gli attribuivano il 16%. Anche Felix Guattari lo sosteneva, ci vedeva una forma di sovversione. Ma si sbagliava. Oggi abbiamo Coluche al potere: è Berlusconi, e questo è un aspetto abbastanza enigmatico di quella che potremmo definire la figura postmoderna del capo politico; il potere può oggi funzionare senza dignità e serietà, senza i regalia dell’autorità. In termini lacaniani, potremmo parlare di un’eclissi del significante padrone (signifiant maître). Lacan parla di un’opposizione fra conoscenza e significante-padrone: l’autorità non può basarsi solo sulla conoscenza degli esperti, ma deve presentare una caratteristica aggiuntiva che identifichi qualcuno come capo. Se si toglie il tradizionale carisma fatto di dignità, bisogna trovare un sostituto, e uno dei sostituti pare oggi essere una comicità alla Ubu. Il potere di Berlusconi oggi pare fatto di (presunta) competenza tecnocratica e di comicità.

Il riferimento al corpo del comico e alle sue volute degradazioni, innesca una riflessione sull’ossessione berlusconiana per il proprio corpo, sulla sua dichiarata volontà di sopravvivenza, o meglio ancora: desiderio di sconfiggere la morte. Non credo sia solo paura di invecchiare, ma necessità di eternarsi ancora in vita. Lei come giudica questo atteggiamento?
Faccio spontaneamente qualche associazione. La prima è che Berlusconi costituisce per certi versi una reviviscenza del mito medioevale, presente nel ciclo arturiano, del Re Pescatore, o Re Ferito, alla cui menomazione fisica corrisponde la decadenza e la desertificazione del suo paese, la Terra desolata. Il re deve guarire perché il paese possa prosperare di nuovo. Oltre al semplice elemento della vanità personale, è come se Berlusconi cercasse di vendere, in modo comicamente distorto, il mito arcaico che la salute del paese dipenda dalla salute del capo. È questa l’ironia di Berlusconi: continui riferimenti ai regalia e, al contempo, capacità di sollecitare un’identificazione basata sulla sua somiglianza, non sulla differenza dall’uomo comune.

È la caratteristica del populismo. Ma in che consiste questa identificazione?
Partiamo da un luogo comune. Non dico che gli italiani siano così, ma esiste senz’altro un cliché che li dipinge come piccoli frodatori che stordiscono le mogli di bugie, e vengono rappresentati come donnaioli ed evasori del fisco. Berlusconi sembra realizzare in proporzioni amplificate ciò che gli italiani sognerebbero di fare – un po’ di affari loschi qui e là, una relazione diciamo molto personale con le tasse. Anche la sua propensione ai commenti e alle battute sessuali, le sue gaffe, le sue barzellette innalzate a miseri apologhi, proiettano una trama conoscibile. È come se imitasse l’ordinarietà di voi italiani. E questo è ancora un altro aspetto dell’ubuizzazione.

È una strategia intermente voluta?
Mi chiedo se lo faccia apposta, e in quale misura. Alcuni politici sloveni che lo hanno incontrato mi hanno detto che anche in privato è così, che gli piacciono le barzellette sporche, che ama tirare tardi. Ma anche se è davvero così, non è impossibile che consapevolmente lasci questa sua natura esprimersi il più possibile. Credo ci sia in ciò un aspetto manipolatorio: Berlusconi «c’è e ci fa», come direste voi. Qualcosa di diverso ma analogo accade con Putin, che rappresenta un altro versante del potere postpolitico e neoautoritario (e non è un caso che i due siano amici). Putin gioca consapevolmente con un altro aspetto, quello del suo brutale autoritarismo. Quando per esempio un giornalista occidentale gli rivolse una provocazione filo-ocecena, per tutta risposta Putin gli chiese: «Sei circonciso? In Russia abbiamo degli ottimi dottori, possiamo circonciderti e forse anche qualcosina di più». Ho chiesto ad alcuni miei amici russi ben informati se queste siano «esplosioni» incontrollate di una vera natura tenuta repressa; mi hanno risposto che no, che sono per lo più previste e progettate. Insomma, il capitalismo postdemocratico sta trovando in Occidente le sue diverse forme: per ora italiana e russa. Qui comunque non abbiamo bisogno di un autoritarismo «confuciano», di leader saggi e sapienti, come a Singapore. Non fa per noi, stiamo inventando i nostri modi e ne sapremo di più tra qualche anno.

È interessante quel riferimento al mito medioevale del Re Pescatore. A questo proposito veniva in mente il film di Terry Gilliam sulla leggenda. Glielo ricordo perché lei ha spesso usato il cinema come metafora in grado di spiegare i meccanismi nascosti della realtà.
È un invito a verificare se sono possibili altre associazioni. Sempre restando ai miti medioevali, un’altra associazione si può fare con l’ultimo Beowulf cinematografico, quello interpretato da Ray Winstone. Ecco,Winstone è davvero una figura berlusconiana. All’inizio, nel film, anche lui fa dei commenti ironici su se stesso. E poi il film ha qualcos’altro, qualcosa di unico dal punto di vista tecnico. Hanno combinato riprese d’azione e cartoni animati. Ci sono degli attori in carne e ossa, ma la loro immagine è modificata mediante disegni, così che appaiono, fra le altre cose, più giovani. Il Beowulf cinematografico è una sorta di chirurgia plastica vivente, e così in qualche misura è Berlusconi. Pensiamo ancora a uno dei grandi miti gotici del nostro tempo, i giochi di carte per bambini. In particolare Yu-Gi-Oh!, forse il più diffuso in tutto il mondo. Mio figlio non fa altro che giocare con queste carte (e mi ha costretto a comprare su eBay la combinazione di carte più potente, nota come Exodia, per trecento dollari). Ecco, la cosa straordinaria di questi giochi è che non presentano un unico universo di regole. Quasi ogni singola carta ha le proprie. Per me sono un mistero: su una carta può esserci scritto che se ne hai un’altra succede un’altra cosa ancora, e così via. È un sistema di regole completamente opaco, sterminato; solo dei bambini piccoli, con la loro memoria eccellente, possono ricordarle tutte. Questo assomiglia moltissimo al modo in cui funziona il potere oggi. Gli antichi e nobili sistemi di potere sono fondati su testi sacri: costituzioni, regole di base. Oggi ci stiamo muovendo da un grande insieme di regole fondamentali e stabili a queste improvvisazioni: si tendono a creare stati temporanei di emergenza con regolamenti transeunti, variabili. Già Foucault e Deleuze identificarono questo passaggio dalle leggi ai regolamenti: regole inventate per, o applicate a, situazioni specifiche.

Non dimentichiamo però che uno dei contenziosi più aspri riguarda le leggi ad personam.

Si potrebbe dire che non c’è niente di più generale del personale e che il corpo del Re va salvato a ogni costo, contro ogni decenza e a prescindere da ciò che la democrazia richiederebbe.

È il lato oscuro e mitologico del potere di quest’uomo che si avvale di una clownerie unica.
Un mio sogno è vedere interagire Berlusconi e Benigni al suo peggio (in senso buono): il mio problema con Benigni è che negli ultimi film è diventato troppo sentimentale (al Pinocchio, ma anche al finale della Vita è bella, preferisco il Benigni, per esempio, di Taxisti di notte di Jarmush). Ecco, sarebbe bello vederli insieme, questi due grandi clown. Ma non sono sicuro che Benigni sarebbe altrettanto divertente, con Berlusconi. Benigni è un clown classico, il cui gioco è meno opaco e più aperto, Benigni si prende in giro e fa il pagliaccio in un modo che presuppone una dignità. E questo è il motivo per cui amava tanto Berlinguer. Si può non essere d’accordo con Berlinguer, ma è senz’altro stato uno degli ultimi politici italiani a incarnare un’autorità sommamente dignitosa – il silenzio della dignità, si direbbe. La mia impressione è che Benigni funziona meglio in contrappunto a un’espressione dignitosa del potere. Con Berlusconi potrebbe essere un numero molto, molto meno divertente.

Anche perché Berlusconi non dividerebbe mai la scena con qualcun’altro. Soprattutto se più bravo di lui. Del resto egli è certo di essere un grande seduttore di donne e di folle. In che misura egli incarna la seduzione del potere?
Ogni potere esercita una seduzione. Persino gli esperti tecnocrati tentano di sedurre attraverso i loro expertise: quando gli economisti espongono le loro posizioni dispiegando terminologie specialistiche, contano sul fatto che non li comprenderemo, e che proprio per questo ci sedurranno. Certo, Berlusconi seduce, ma non con i mezzi tradizionali della brutalità né della dignità. Anche se l’ubuizzazione comincia con Reagan, questi presentava ancora alcuni aspetti tradizionali di brutalità: si pensi a quando, in risposta a un grande sciopero dei controllori di volo, si rese rapidamente conto che nell’esercito aveva abbastanza uomini per sostituirli, e li licenziò tutti e diecimila. Berlusconi seduce anche lui, ma in una maniera originale. Per certi versi rappresenta un ritorno all’Urvater freudiano: si ricorderà che secondo il Freud di Totem e tabù il padre primordiale aveva il diritto di possedere fisicamente ogni donna della tribù. Ritengo che Berlusconi giochi con questa forma di seduzione, e penso che questo segnali un nuovo funzionamento del potere in generale. Non dovremmo sottovalutarlo o ridurlo troppo facilmente a un fenomeno tutto italiano. Molti analisti politici oggi gettano facilmente il discredito con asserzioni sostanzialmente razziste: «Ah questi italiani, non ci si può far nulla!». Non è così.

E com’è?
Si pensi a Obama. Anche lui si è avvalso di questo cambiamento, in modi molto diversi. Anche lui non recita più la parte del nobile e dignitoso capo di Stato. La prima reazione di molti alla candidatura di Obama fu: è un bravo ragazzo, ma lo prenderanno sul serio? Ha abbastanza autorevolezza? Nel conflitto fra Obama e McCain, era questi a giocare il ruolo dell’autorità classica. Se dai dibattiti politici togliamo la fuffa, il punto base di McCain era: «Io sono un capo, io ho l’autorità, Obama no». Ma oggi l’essere capi è dissociato dall’essere autorevoli e austeri; e Obama ha potuto vincere. Certo, si può fare un’analisi psicologica di Berlusconi, ma non penso che questo sia interessante. È preferibile domandarsi a quali bisogni sociali, a volte arcaici, la figura di Berlusconi fa riferimento. Con quali bisogni la figura di Berlusconi entra in risonanza? In definitiva, io sono un collettivista vecchio stile. Gli individui non sono interessanti: odio la psicologia individuale. Mi interessano i bisogni collettivi che essi rispecchiano.

Lei sostiene che ciò che accade in Italia succede anche altrove. Ma in quale altro grande paese il suo avere a che fare con escort, ragazze giovanissime e persino minorenni non avrebbe portato a dimissioni immediate? Questo non è accaduto in Italia. Perché?

Non credo che in tutti gli altri paesi il risultato sarebbe stato questo. In altri paesi succederebbe forse qualcosa di simile a quanto sarebbe accaduto anche negli Stati Uniti e in Italia decenni fa: si sarebbe realizzato il patto generale di non parlarne. Mentre adesso assistiamo, sotto questo aspetto, a un’americanizzazione dell’Italia (e progressivamente dell’Europa): la vita privata dei leader diviene un fatto d’interesse pubblico. Anche in America, del resto, il fenomeno è recente. Pensiamo a Kennedy: lo sappiamo tutti, non faceva altro che sedurre donne, ma la stampa lo ignorava, non solo e non tanto perché i media fossero oggetto di repressione, ma perché faceva parte del patto sociale. Pensiamo ancora alla Francia e a Mitterrand: tutti sapevano che aveva moltissime amanti e molti figli illegittimi. Un liceo del sesto arrondissement, vicino il Jardin du Luxembourg, veniva chiamato il liceo dei figli illegittimi di Mitterrand. Ma nessuno ne scriveva, anche in questo caso. C’era un codice di discrezione che imponeva di non farlo. Il ghiaccio venne rotto negli Stati Uniti con Clinton: e da allora si può fare ogni cosa, si può indagare sulla vita privata dei personaggi pubblici. Voi siete una grande nazione, non abboccate a queste stronzate nordeuropee che vi trattano come una razza di inguaribili fanfaroni.

Una nazione si giudica anche da chi la guida.
D’accordo, ma la questione è più generale e travalica i vostri confini, fa parte della «snobilitazione» del potere. Qualcosa è cambiato a un livello molto più profondo, nell’economia simbolica della relazione della collettività con il potere. E, lo ripeto, non credo che in tutti gli altri paesi, comunque, un Berlusconi rassegnerebbe le dimissioni. Lo stesso Clinton non si dimise. E anche in Francia oggi non sarebbe certo detto. Un po’ di tempo fa, mentre visitava una fiera agricola, a un uomo che ha rifiutato di dargli la mano, Sarkozy – che non sapeva di essere registrato – ha risposto: «Casse-toi, pauvre con», un’espressione molto volgare e insultante. Il video ha fatto il giro del mondo, ma non è successo nulla, anzi forse l’episodio lo ha aiutato in popolarità. Comunque, certo, in molti altri paesi non è ancora possibile non dimettersi dopo uno scandalo del genere: ma voi siete il futuro. Diventerà sempre più così, c’è da temere. Tuttavia, scoperto il «vizietto» di Berlusconi, lo si potrebbe utilizzare più discretamente per farlo cadere, costringendolo a dimettersi ma senza mettere al centro dell’attenzione pubblica la sua vita sessuale. Questo è la fine dell’autorità moderna per come la conosciamo.

Nel suo articolo sulla «London Review of Books», lei ha sostenuto che il modello di Berlusconi è esportabile. Che cosa glielo fa ritenere?

Berlusconi è l’epitome dell’«ubuizzazione del potere», della perdita della dignità classica del leader. E penso che questo sia un processo universale. Potrà avvenire in modi diversi a seconda dei paesi, ma è parte di un processo globale.

Cosa pensa delle ripetute minacce di Berlusconi alla stampa?

Io penso sia in primo luogo ipocrisia. Berlusconi fa il doppio gioco, in questo caso: nessuno è così stupido – e lo stesso Berlusconi non può essere totalmente stupido – da pensare che il modo in cui lui si comporta non possa provocare questo genere di domande. Non può certo dire, in nessun caso, di essersi comportato come un onorevole e dignitoso uomo di Stato! D’altra parte, molte persone comuni, pensando a un settantaduenne che se la spassa con tante ragazze, potrebbero ammirarlo. Certo, io sono disgustato dal comportamento di Berlusconi, mi sento completamente solidale con «la Repubblica» e aderisco senz’altro e con convinzione all’appello che qualche tempo fa fu fatto da tre giuristi. Tuttavia, temo che Berlusconi prosperi proprio su questo. I politici più abili nella manipolazione lo hanno sempre saputo: nulla ti aiuta di più di un certo genere di critica. Berlusconi oggi si può anche presentare in questo modo: sono un grande seduttore, quei professorucoli impotenti della sinistra mi invidiano a morte. Qui giochiamo con il fuoco.

Lei che farebbe?
Se io fossi un giornalista antiberlusconiano, cosa che certamente sarei, non mi concentrerei sulla sua vita sessuale né su altri temi che possono generare la pur minima identificazione: l’evasione fiscale, per esempio (o l’impotenza: anche questo può generare identificazione, visto che metà degli uomini hanno problemi del genere). Persino concentrarsi sulla
corruzione funziona solo con i casi estremi: una corruzione «ordinaria» può esser vista come una forma estremizzata di piccoli comportamenti di saper vivere quotidiano. Bisogna forse presentare le decisioni politiche di Berlusconi come direttamente legate ai loro effetti gravemente negativi. Dire: Berlusconi ha fatto questo, e di conseguenza queste persone, con nomi e cognomi e storie, sono morte, queste altre hanno perso il lavoro. Se gli elettori rimangono indifferenti davanti a questo, beh, siamo fottuti. E Berlusconi, certo, sta attivamente cercando di creare una simile indifferenza. Ma dev’esserci un modo di reinventare le domande centrali della politica, riformulando le questioni politiche ed economiche in termini più personali, anche chiaramente manipolatori, se ce n’è bisogno. Sarebbe un bene ripensare la strategia per combattere Berlusconi: troppe volte lo abbiamo aiutato.
Con la collaborazione di Vincenzo Ostuni