Madrid come il Cairo. La sfida degli indignados

L’Unità, 18 maggio 2011


Su Twitter non si parla d’altro: in Spagna è scoppiata la #spanishrevolution.

Alcune migliaia di giovani anti-crisi, ribattezzati gli «indignados» (gli indignati) dalla stampa spagnola, sono tornati a occupare la Puerta del Sol, nel cuore di Madrid, da dove erano stati sgomberati l’altra mattina dalla polizia.

I giovani antisistema, che si sono nuovamente autoconvocati attraverso le reti sociali e che si riconoscono nella piattaforma «Democracia Real Ya», affermano di voler riaccamparsi sulla celebre piazza madrilena fino alle elezioni amministrative e regionali di domenica prossima.

Manifestazioni in appoggio alla protesta di Madrid sono state convocate in circa 40 città spagnole. I giovani «indignados», denunciando fra l’altro la «collusione» fra politici e banchieri. A Puerta del Sol i giovani, riuniti in assemblea hanno deciso di restare la notte sulla piazza, cantando fra l’altro «Non abbiamo casa, restiamo in piazza».

Nella zona è presente un forte dispositivo di polizia.

IL MOVIMENTO M-15

Irrompe nella campagna per le amministrative e regionali parziali di domenica prossima in Spagna ed è ora corteggiato da sinistra e centrosinistra il movimento spontaneo dei giovani anticrisi del «15 M» (per 15 maggio), che domenica ha riunito in manifestazioni autoconvocate su internet in tutto il paese oltre 50mila persone e che da ieri tenta di occupare Puerta del Sol a Madrid.

Il movimento vuole esprimere la rabbia e la frustrazione di centinaia di migliaia di giovani spagnoli, fra i più colpiti dalla crisi che si è abbattuta sul paese dal 2008, dopo anni di euforia e di ‘bolla immobiliarè. Il tasso di disoccupazione spagnolo è oltre il 20%, il doppio della media Ue, e i successivi giri di vite antideficit decisi dal governo del premier socialista Josè Luis Zapatero hanno reso ancora più difficile la situazione dei settori più fragili della popolazione.

«Ci preoccupa che non ci sia una alternativa reale alle elezioni. Si presenta gente indagata, ci sono giri di vite e privatizzazioni, si salvano le banche, ma non i cittadini», ha accusato un portavoce dei giovani di Puerta del Sol.

Il movimento dei ribelli traduce l’allontanamento di molti elettori tradizionali dal Psoe di Zapatero, che secondo i sondaggi dovrebbe essere il grande perdente delle elezioni di domenica. Secondo El Pais online, i partiti di sinistra e centrosinistra hanno iniziato una manovra di avvicinamento al movimento «15 M».

Il leader di Izquierda Unida, Cayo Lara da Siviglia, ha condannato l’intervento della polizia e ha accusato il governo Psoe di esserne responsabile. «Appoggiamo questo movimento di rivolta e indignazione perchè ne facciamo parte» ha detto, invitando i giovani anticrisi a ‘castigare il poterè andando a votare domenica«. E anche il leader Psoe madrileno, Tomas Gomez, ha tentato l’avvicinamento. »Mi identifico con le loro rivendicazioni, ha affermato, ma li invito a esprimerle con la politica».

 

L’insegnamento della Mayday

Il Manifesto – 3 maggio 2011

Nella giornata di domenica, come ormai da diversi anni, la ricorrenza del primo maggio a Milano ha dato una rappresentazione visiva di un tratto fondamentale della nostra società; e soprattutto delle sue dinamiche.

Al mattino la banda del Comune si è portata dietro, nel corteo ufficiale, uno sparuto gruppo di affiliati alle tre confederazioni, un altrettanto sparuto gruppo di affiliati ai partiti di centrosinistra (più Sel e Rifondazione che Pd), qualche rappresentanza di aziende in crisi e una piccola delegazione di migranti. Pochi slogan, niente musica se non quella della banda. Dietro, come tutti gli anni, diverse migliaia di militanti di Lotta Comunista, usciti dalla catacomba della loro quotidianità, dove nessuno mai li incontra e non incontrano mai nessuno, ma affluiti da tutta Italia per questo appuntamento annuale che gli restituisce “visibilità”. Tra loro, quest’anno, parecchi giovani e meno giacche e cravatte d’ordinanza.

Nella composizione di questo corteo è evidente un rapporto fondato sulla reciprocità: il primomaggio a Milano rende – per un giorno – visibile un’organizzazione per altri versi ectoplasmica; ma senza di loro le organizzazioni ufficiali non avrebbero probabilmente nemmeno i numeri per fare un corteo. Una palese  manifestazione di stanchezza e di insignificanza. Prosegui la lettura »

Disoccupazione: “Tutta colpa dei giovani”

Il Fatto Quotidiano – 21 aprile 2011

Il governo, a partire dal ministro Tremonti, sostiene che i ragazzi devono riscoprire i lavori umili, ma nessun dato conferma questa tesi. Datagiovani spiega: “I questionari Istat non danno indicazioni sui lavori rifiutati”

La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Ieri il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera spiegano che il governo aiuterà i ragazzi a “superare il pregiudizio verso l’istruzione tecnica e professionale”. Una diffidenza che “per troppo tempo ha allontano i nostri giovani da prospettive occupazionali che consentono invece una straordinaria realizzazione di sè”. La tesi non è condivisa solo dal governo, ma è stata rilanciata dal Censis di Giuseppe De Rita e da editorialisti come Dario Di Vico che, sempre sul Corriere, invitava ad arruolare “i testimonial più trendy” per spiegare il fascino del lavoro manuale. Peccato che tutte queste certezze non si fondino sui numeri. Sono atti di fede.

Non c’è alcuna indicazione sul fatto che la difficoltà di reperimento dipende dall’età, di solito deriva dalla mancanza di professionalità adeguata o di esperienza.  “Non c’è alcun dato ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti”, spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Datagiovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. Spiega ancora Pasqualotto: “Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c’è n’è alcuna sui lavori rifiutarti, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero disposti a fare per lavorare”.

Su cosa si fonda, allora, tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. Il rapporto Unioncamere-ministero del Lavoro studia le richieste delle imprese: stando alle previsioni di assunzioni relative al 2010 (le più recenti a disposizione) e alla difficoltà di reperimento del personale ricercato, risulta che è difficilissimo trovare 2860 meccanici per autoveicoli, una rarità i montatori e riparatori di serramenti e infissi (ne mancano 1350). Questo significa che tutti i giovani devono diventare meccanici o montatori di infissi? Assolutamente no, è lo stesso rapporto Unioncamere a precisarlo. “Se si eccettua il 2009 [quando il Pil è crollato del 5 per cento], le assunzioni di laureati e diplomati programmate dalle imprese sono continuamente aumentate in termini assoluti, segnando entrambe, in ciascun anno, variazioni superiori alla media di molti punti”. E quindi tra il 2004 e il 2009 le assunzioni dei laureati sono cresciute dall’8,4 per cento all’11,9 per cento. Mentre quelli con la sola licenza dell’obbligo sono diminuiti dal 41 al 30,4 per cento. Studiare, insomma, conviene anche se meno di un tempo, come racconta il rapporto di Almalaurea (il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea specialistica è salito tra il 2008 e il 2009 da 16,2 a 17,7). “Inoltre il rapporto Unioncamere non specifica se la difficoltà di reperimento si traduce poi in un congruo numero di assunzioni”, spiega Pasqualotto di Datagiovani.

Anche i numeri del Censis di Giuseppe De Rita sono una fragile base per le asserzioni del governo. Il ragionamento dell’istituto è questo: nei lavori più strettamente manuali la presenza di lavoratori under 35 è diminuita tra il 2005 e il 2010 dal 34,3 al 27,6 per cento. Negli stessi anni è però cresciuta la percentuale di lavoratori stranieri, dal 10 al 18,8 per cento. Ergo, conclude il Censis, gli stranieri hanno preso il posto dei giovani. Ma è solo una teoria, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non tiene conto del fatto che i giovani sono i più facili da espellere dal mercato del lavoro perché quasi tutti precari (nel 2010 il 36 per cento dei nuovi assunti era giovane, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti di un altro 15 per cento). E non considera neppure il fatto che, se gli stranieri aumentano (e hanno in prevalenza un basso tasso di istruzione) e i giovani italiani diminuiscono, una certa sostituzione è fisiologica.
Quello sul fascino del lavoro manuale resta comunque un dibattito tutto italiano. Basta scorrere il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro (dell’Onu) di agosto 2010, dal titolo “Trend globali dell’occupazione per i giovani”. Non c’è alcun cenno alla necessità di spiegare che, in tempi di magra, qualunque lavoro va bene. Ma si insiste sulla necessità della formazione continua, basata su tre principi chiave: “1) Fare tutto il possibile per evitare l’abbandono scolastico 2) Promuovere la combinazione di studio e lavoro 3) Offrire a ogni giovane una seconda chance di formazione”, per recuperare chi ha lasciato gli studi troppo presto. Ma consigliare a chi è tentato dall’università di andare a bottega a imparare un mestiere, magari lavorando gratis e scomparendo dalle statistiche, è molto più semplice.

di Stefano Feltri

Noi, precari licenziati da “Italia Lavoro”

micromega.it – 14 aprile 2011

Siamo circa 30. Ma il numero potrebbe anche aumentare. Avendoci Italia Lavoro, agenzia tecnica del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, licenziato tramite raccomandata a casa, non abbiamo più diritto ad entrare in quello che è stato per 5, 6, 7, 8, 10 anni il nostro posto di lavoro e di accedere alle email aziendali che tutti noi individualmente possedevamo.

E’ complicato, quindi, rintracciare chi è stato ‘silurato’ in questi giorni dall’azienda, interamente partecipata dallo Stato, che ha sede centrale a Roma, ma che vanta unità territoriali in tutto il territorio italiano.

Non ci è più possibile varcare quel tornello che tutti i giorni dovevamo attraversare con il ‘badge’. Non ci è più possibile perché siamo diventati un corpo estraneo, espulso, che ha minato il rapporto fiduciario con l’azienda, semplicemente esercitando un diritto sul posto di lavoro.

Qual è il fatto? E’ noto che il Collegato Lavoro (L.183/2010) imponeva di fatto ai lavoratori con contratti a termine scaduti entro il 24 novembre 2010 di inviare una raccomandata al proprio ente di riferimento per mettere a tutela eventuali rivendicazioni, pena la perdita dei diritti pregressi.

La voluta ambiguità del termine ‘contratti a termine’ ha indotto decine di lavoratori di Italia Lavoro, sia co.co.pro di lunga durata, che con contratti a tempo determinato, ad inviare la lettera.
Ci aspettavamo una reazione da parte dell’azienda, credevamo che ricevendo decine di richieste si ponesse il problema di come gestire e governare speranze, aspettative, certezze di processi di stabilizzazione.

Non l’abbiamo fatto senza paura, ma certi di porre il problema di centinaia di lavoratori che da anni (anche da un decennio, per alcuni di noi) fanno funzionare la macchina delle politiche attive, della riqualificazione e del reinserimento di soggetti fragili nel mercato del lavoro, in costante relazione con i soggetti che ne sono territorialmente competenti.

Molti di noi gestivano e coordinavano linee di progetto, costituivano snodi relazionali significativi, a volte strategici, per l’azienda e per l’implementazione dei programmi, restituendo in questi anni credibilità alle azioni di Italia Lavoro, attraverso le competenze, la motivazione e la passione messe a disposizione e anche la disponibilità tipica dei lavoratori precari ricattati dal rinnovo del contratto.

Per le Regioni, le Province, le donne e gli uomini ‘ammortizzati’, i disoccupati, gli immigrati, i diversamente abili, gli ex detenuti, non eravamo ‘un problema di risorse umane’, ma la concretezza delle azioni rispetto all’astrattezza delle ‘politiche’.

Sì perché anche noi siamo donne e uomini, mamme e padri, lavoratori e lavoratrici super titolati, donne incinte, immigrati, malati, precari. Ora drammaticamente disoccupati. E purtroppo neanche over50. Paradossalmente, senza misure, senza sostegni, senza incentivi.

Tra noi ci sono i licenziati in tronco con rescissione del contratto in essere perché hanno inviato le lettere del collegato lavoro, quelli che non sono stati rinnovati perché hanno inviato le lettere del collegato lavoro, quelli che non sono stati rinnovati e basta per le politiche dei tagli e dei blocchi di assunzioni. Ma in azienda rimangono ancora a lavorare quelli che hanno inviato le lettere ma che sono stati chiamati a negoziare la loro posizione.

Come anche i circa 500 collaboratori cui scadranno i 36 mesi di contratto entro fine anno e che per un regolamento interno varato nel 2008 in seguito al decreto Brunetta dovranno andare via. Le decine di nuovi precari che stanno entrando in questi mesi e giorni con il sistema delle vacancies con evidenza pubblica, anche a sostituire noi, non avranno vita più lunga dei 36 mesi. A meno che qualche fortunato non goda di qualche deroga al regolamento e al blocco delle assunzioni.

E allora anche quel know how new entry pieno di disponibilità e di speranze sarà razionalizzato da una cultura organizzativa miope ed inesistente. Un ultimo pensiero anche ai nostri colleghi dipendenti, che nonostante siano ‘garantiti’ (ancora per quanto?) dal ‘posto fisso’, fanno i conti quotidianamente con una struttura che si muove nell’ambiguità del privato parastatale e del pubblico privatistico, esprimendo il peggio di entrambi.

I prossimi giorni ci vedranno impegnati nella costruzione di una mobilitazione pubblica e di forme di protesta diffuse.

Le lavoratrici e i lavoratori licenziati da Italia Lavoro

Unicef: sale degrado infanzia in Italia

Ansa.it – 2 aprile 2011

Allarme nel nostro Paese: in aumento famiglie in cui mancano i beni essenziali

FIRENZE  – Negli ultimi anni, in Italia “rileviamo un aumento del degrado delle condizioni di vita dei bambini e degli adolescenti più che nei paesi in via di sviluppo. Sia in termini di povertà relativa sia per quanto riguarda gli investimenti pubblici. Ridurre i fondi ai comuni è stato un errore, i diritti dell’infanzia nel nostro paese sono per questo compromessi”. E’ l’allarme che lancia il presidente dell’Unicef Italia Vincenzo Spadafora a margine del meeting dei volontari in corso a Firenze ed in programma fino a domani, 3 aprile. “Da circa tre anni, da quando sono presidente dell’Unicef – afferma Spadafora all’ANSA – giro in continuazione l’Italia e posso testimoniare che vedo un aumento delle famiglie in cui mancano i beni essenziali, a volte ai figli non viene garantito il cibo. Mi viene in mente Napoli, che è la mia città e che conosco, ma anche alcune periferie del Nord”. All’origine di ciò, il forte calo delle risorse ai comuni: “un grosso errore per le ricadute sul welfare locale”. Il presidente dell’Unicef Italia ha riferito poi che da New York, sede dell’Unicef internazionale, “arriva l’invito al nostro comitato per fare pressione nei confronti del governo”.

“Si tratta di fatti oggettivi: questo governo ha tagliato la stragrande maggioranza dei fondi destinati ai comuni per le politiche per l’infanzia. Quando andiamo dai sindaci per proporre loro interventi ci dicono ‘non abbiamo soldi'”. Questo produce in genere, per Spadafora, un calo dei diritti dell’infanzia e l’adolescenza. Qualche esempio? “il diritto all’istruzione pubblica è messo in discussione dalla recente riforma; il piano nazionale dell’ infanzia è stato approvato, elenca principi ma non prevede mezzi economici adeguati, c’é uno stanziamento simbolico. E’ evidente che la prospettiva dell’area dei diritti, delle politiche sociali, ed in particolare dei bambini, non è una priorità per il governo”. “Non posso dire al governo ciò che andrebbe fatto – ha osservato ancora Spadafora – di sicuro c’é un dato tristemente coerente con questo governo. Ogni volta che proponiamo qualcosa ci viene detto non abbiamo i soldi. Così non si può andare avanti”.