Il reddito promesso, il reddito frainteso. Brevi note sulla proposta di legge S1481 a firma Ichino + altri

di Luca Santini

ABSTRACT

Riflessioni sulla proposta Ichino della riforma del mercato del lavoro e la questione del reddito garantito.

La strada imboccata con decisione dall’Esecutivo Monti verso la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non mancherà a breve di tradursi in proposte e articolati di legge concretamente valutabili. Ad oggi possiamo confrontarci con semplici dichiarazioni alla stampa, allusioni in trasmissioni televisive, generici programmi di riforma. La concentrazione del dibattito sul “superamento” della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la forte esposizione mediatica recentemente rafforzata del Senatore PD Pietro Ichino, lascerebbero però pensare che la vera bozza legislativa allo studio del Governo sia modellata sulla proposta di legge n. 1481 depositata in Senato (a firma Ichino + altri),  intitolata “disposizioni per il superamento del dualismo del mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili e la garanzia di pari opportunità nel lavoro per le nuove generazioni”.

Una riflessione un poco più ravvicinata su questo disegno di riforma sarà quindi utile per contribuire criticamente allo sviluppo del dibattito. La decisione del Governo di intervenire sulla materia spinosa e magmatica del mercato del lavoro non può giustificare, infatti, una levata di scudi a difesa dell’esistente. Occorre prendere atto la via su cui lo sviluppo dei rapporti sociali pare già incamminato condurrà naturaliter all’esaurimento delle garanzie consolidate del diritto del lavoro (e in primis della tutela reale contro il licenziamento), nonché anche al progressivo estinguersi della tutela pensionistica come forma specifica di assicurazione contro la vecchiaia. Rispetto alla condizione sociale di milioni di lavoratori (non più così giovani, ormai) dispersi in micro-imprese in appalto, cooperative, datori di lavoro capaci di offrire soltanto contratti a termine o a progetto, non ha più un significato concreto il richiamo all’articolo 18; e lo stesso può già dirsi per la previdenza pubblica, resa incapace dalle riforme degli ultimi anni di fungere da garanzia tangibile per la dignità della persona nella fase di riposo dalla vita lavorativa. Non c’è spazio dunque per la difesa dell’esistente, c’è un bisogno pressante, al contrario, di nuovi diritti e nuove tutele. Da questo punto di vista il ddl menzionato, sicura fonte di ispirazione per l’azione del Governo, merita di essere valutato attentamente quanto meno per l’effetto di rottura dall’inerzia che promette di produrre.

Il puto cruciale della nuova disciplina proposta sta nel superamento dei vincoli alla cosiddetta flessibilità in uscita (licenziamenti più “facili”, dunque), in cambio di una sostanziosa indennità di disoccupazione della durata di quattro anni, pari al 90% dell’ultimo salario percepito nel corso del primo anno, e poi a scalare pari all’80, al 70 e al 60 per cento negli anni successivi al primo. Inoltre il lavoratore licenziato gode al momento dell’interruzione del rapporto lavorativo di una buonuscita una tantum pari a una mensilità di salario per ogni anno di anzianità aziendale. Questo nuovo regime caratterizzato da ammortizzatori sociali sensibilmente più generosi di quelli oggi disponibili si applica solo ai lavoratori che siano riusciti a superare un anno di anzianità di servizio all’interno di una stessa azienda. In cambio di questa maggiore generosità nell’accesso al sussidio il disoccupato deve acconsentire a stipulare un accordo di ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il sussidio (anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse provenienti dal sussidio oggi a carico dell’INPS) e che ha un interesse economico a situare velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo.

Su questo disegno di riforma, qui velocemente tratteggiato, si rassegnano di seguito alcune brevi osservazioni.

1)     Il progetto di legge in oggetto mira ad introdurre una semplificazione del mercato del lavoro mediante una drastica riduzione delle forme contrattuali esistenti. Sia le forme contrattuali subordinate che quelle parasubordinate dovrebbero confluire nel nuovo “contratto di transizione” destinato a diventare forma contrattuale tendenzialmente unica per tutta la popolazione attiva e in posizione economicamente dipendente. Resterebbero in vigore soltanto i contratti a termine (ma ridotti nel numero perché ricondotti alla presenza di esigenze produttive realmente temporanee), alcune forme di lavoro interinale e forse l’apprendistato. La proposta di un “contratto unico” è stata avanzata anche da altri commentatori (primi fra tutti Boeri e Garibaldi) ed apre una prospettiva interessante e da discutere in modo costruttivo. Il rischio sotteso a simili progetti è quello di una eccessiva astrazione dai reali rapporti produttivi, poiché se è vero che negli ultimi anni il legislatore si è spinto decisamente troppo in là nell’invenzione di tipologie contrattuali sempre nuove, è vero anche che imporre a forza un unico modello contrattuale a un mercato del lavoro che comunque esprime un’esigenza di flessibilità potrebbe non essere rispondente alle reali esigenze dei produttori. Forse perché consapevole di questi rischi la proposta Ichino (diversamente da quella Boeri-Garibaldi che impone il “contratto unico” ope legis a partire da una certa data e per le nuove assunzioni) lascia alla contrattazione collettiva (e individuale) la scelta per il nuovo “contratto di transizione”, scommettendo sulla sua convenienza per imprese e lavoratori.

2)     Il disegno di riforma prevede dunque un progressivo ampliamento del nuovo strumento contrattuale, una sua applicazione a macchia d’olio, fino all’integrale sostituzione di tutte le forme contrattuali vigenti. Anche qui si vede una certa astrattezza di impostazione, che non tiene conto delle specificità talora spiccate dei vari contesti produttivi. In particolare non è ben chiara la convenienza per le piccole imprese (sotto i 15 dipendenti) a entrare nel nuovo regime. Se infatti per le grandi imprese l’interesse sta nel superamento della tutela reale contro i licenziamenti prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, lo stesso non può dirsi per le unità produttive più piccole. Il ddl prevede infatti, a vantaggio delle sole imprese sotto i 15 dipendenti, il versamento di un contributo statale in favore dell’agenzia di ricollocamento – vi è dunque un trasferimento di risorse pubbliche per incentivare  l’attivazione di uno speciale rapporto contrattuale di natura privatistica tra il dipendente licenziato e l’agenzia di ricollocamento. Ma pur con questo incentivo non è per nulla certo che la piccola impresa trovi conveniente abbandonare il regime esistente fondato su contratti a termine, forme parasubordinate, precariato. E’ dunque assai probabile che il nuovo “contratto di transizione” non riesca a raggiungere la semplificazione sperata, ma che al contrario finisca per un creare un’ennesima figura contrattuale – modulata sugli interessi della grande impresa – da affiancare a tutte le altre oggi esistenti.

3)     Il proposito della riforma è quello di superare il dualismo del mercato del lavoro, caratterizzato – secondo quanto si dice nella relazione introduttiva – da una vera e propria apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori precari che portano da soli tutto il peso della flessibilità. La risposta che si tenta di dare a questa condizione sta nella creazione di una forma di tutela uniforme, che si colloca a un livello “mediano” rispetto alla polarizzazione oggi esistente. Rispetto a questa analisi, ancora una volta, è forse il caso di delineare un’immagine più realistica della realtà del lavoro nel nostro paese, che non è tanto caratterizzato da un dualismo, quanto piuttosto da una moltiplicazione indefinita delle posizioni, fino quasi a un’individualizzazione della situazione di ciascuno. E anche qui: se in parte vi è stata una cedevolezza eccessiva da parte del legislatore alle esigenze dell’impresa, in parte questa situazione è anche lo specchio fedele di una produzione che si è fatta “liquida”, non catalogabile, irriducibile a macro schemi unificanti. Non di dualizzazione, dunque, si deve parlare, piuttosto di propagazione indeterminata di rapporti contrattuali sempre diversi e cangianti (forse la condizione singolare di ciascuno è ancora più ricca rispetto alla pur abbondantissima offerta legislativa di ben 44 forme contrattuali ammesse). Mettere un programmatore di computer nella stessa casella del fattorino ed entrambi loro in quella della colf o dell’operaio edile rischia di essere un’iniziativa velleitaria e disperata. Siamo dunque destinati alla balcanizzazione delle tutele e delle società? Niente affatto, il punto sta nell’accordare un livello universale di tutele che faccia da contraltare alla molteplicità delle esperienze contrattuali individuali. Con alcune garanzie forti, valide per tutti e introdotte per legge (e non con la sempre più fragile contrattazione collettiva), si potrebbe guardare alla segmentazione esistente con meno allarme, perché sarebbero esclusi alla radice i rischi di dualizzazione.

4)     Le tutele universalistiche da introdurre per legge sono la previsione di un salario minimo orario (che il ddl S1481 non contempla, ma che è oggetto di altro ddl degli stessi proponenti), di sostegni formativi e in generale welfaristici per i lavoratori in fase di transizione occupazionale, di una tutela compiuta ed efficace del reddito in tutte le fasi della vita produttiva e non. Solo quando sarà realizzato questo obiettivo di “dare forza” al cittadino produttivo anche fuori e oltre la sfera lavorativa, si potrà dire superata la condizione di precarietà esistenziale che oggi affligge gran parte della popolazione più o meno giovane. Occorre insomma rendere garantito per il lavoratore, anche fuori dal rapporto contrattuale con l’impresa, un livello minimo e intangibile di diritti, così da portarlo a un livello di sostanziale parità con l’imprenditore nel momento della contrattazione delle condizioni di lavoro (e senza più timori, a questo punto, per la fioritura esasperata di modelli contrattuali diversi). Un incontro finalmente alla pari tra domanda e offerta di lavoro potrebbe dare luogo a dinamiche sociali fortemente innovative, capaci di coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese con le incomprimibili (e rigide) esigenze vitali dei cittadini lavoratori.

5)     Il ddl in questione, occorre dirlo, è totalmente refrattario rispetto a questo nuovo e urgente obiettivo di crescita civile e sociale. Nonostante il richiamo alla flexicurity scandinava, la riforma è saldamente ancorata alla concezione – prevalentemente diffusa nei paesi anglosassoni – del welfare to work, che viene peraltro proposta in una forma coercitiva raramente riscontrabile nei paesi europei. Siamo qui assai distanti da quell’ipotesi patrocinata dai giuslavoristi più avvertiti (il più eminente dei quali è forse Alain Supiot, ma qui da noi si veda pure Massimo Paci o anche Massimo D’Antona) di rispondere alla crisi del lavoro, andando “al di là del lavoro”, cioè fornendo riconoscimento e garanzie alle attività oggi considerate extramercantili ed extralavorative. Al contrario la proposta in commento mira a stringere i vincoli sul lavoro mediante una più intensa mercificazione e  un più veloce turnover della forza lavoro da un settore all’altro o da un impiego all’altro. In cambio di una relativa sicurezza in termini di reddito e in termini sociali, il lavoratore si presta a una totale disponibilità nei confronti del datore di lavoro (che può licenziarlo senza giusta causa monetizzando la sua uscita dall’impresa) o dell’agenzia di ricollocamento (che può a sua volta allontanarlo se non viene accettata una proposta di impiego). Occorre infatti chiarire che l’agenzia di collocamento (pur avocando a sé la funzione finora di natura pubblicistica svolta dai Centri per l’Impiego) agisce con strumenti senz’altro privatistici ed è  orientata al profitto (prima riesce a ricollocare il lavoratore e più guadagna); il rapporto che la lega al lavoratore licenziato è di diritto privato, esercita su di lui un potere direttivo e può licenziarlo a sua volta se il lavoratore non si mostra abbastanza disponibile. Non è preso in considerazione nel progetto di legge alcun parametro idoneo a definire la “congruità” della proposta di impiego offerta al lavoratore dall’agenzia (anche se su questo aspetto non è da escludere lo svilupparsi di una contrattazione collettiva di un certo interesse), e ciò perché se il lavoratore lo desidera può sottrarsi dal rapporto che lo lega con l’agenzia (e in tal caso, se ne ha diritto, continuerebbe a percepire il sussidio di disoccupazione pubblico). L’effetto finale della riforma sarebbe però di fatto quello di consegnare anche i sussidi esistenti (magri certo, ma pur sempre a carattere pubblico) nelle mani dell’agenzia privata. Di fatto, anche se il “contratto di transizione” prevede tutele crescenti al protrarsi del rapporto, è facile ipotizzare un uso strumentale e distorto nel nuovo potere di licenziamento offerto alle imprese, che risulterebbero incentivate a modificare continuamente la composizione della forza lavoro per eludere i maggiori oneri conseguenti all’allungamento del periodo di presenza del lavoratore all’interno dell’azienda. Non sembra peregrina l’eventualità di una strategia aziendale improntata a una gestione “duale” della manodopera, con un nucleo di lavoratori fissi e di fatto inamovibili, da affiancare a un segmento in continua fuoriuscita dopo brevi esperienze occupazionali.

6)     Comprensibilmente in questo disegno non c’è spazio per un’idea esigente di reddito minimo – e questo non perché, banalmente, un tale proposito sarebbe fuori tema rispetto all’oggetto specifico del ddl in questione. Il tema del reddito minimo come diritto soggettivo (e in generale quello dei diritti sociali di cittadinanza) non c’è perché scardinerebbe tutta la filosofia dell’intervento: se il disoccupato potesse svicolarsi dal rapporto contrattuale con l’agenzia e transitare in un sistema di garanzia pubblico più liberale e adeguatamente generoso, non vi sarebbero margini plausibili per l’accettazione e la diffusione del “contratto di transizione”.

In definitiva l’elemento di criticità che più vistosamente emerge dalla lettura della proposta risiede nel feticcio della ricollocazione a tutti i costi,  rapida ed efficiente del lavoratore disoccupato, come se la mera introduzione di incentivi economici  e di criteri d’azione imprenditoriali in luogo di quelli pubblicistici potesse da sola tenere luogo a una politica industriale degna di questo nome. La risposta alla crisi produttiva e alla conseguente moria di posti lavoro sta dunque nella mera attivazione, su un piano volontaristico, dell’attitudine del lavoratore a rendersi disponibile a nuove esperienze formative e/o  di impiego. Si dovrebbe vedere abbastanza chiaramente l’insufficienza di tale impostazione. Di fronte alle minacce di una povertà di massa, esposti ai venti di una crisi galoppante, nella spirale di provvedimenti che conducono allo smantellamento della tutela pensionistica, la prima e irrinunciabile esigenza per la preservazione dei nostri sistemi sociali sta nella garanzia universalistica, di base, tendenzialmente incondizionata dei mezzi di esistenza. Adempiuta questa assoluta priorità si potrà affrontare forse più serenamente il capitolo della riforma del mercato del lavoro.

 

 

thnx: http://www.bin-italia.org/article.php?id=1625

Reddito, diritto al minimo

lettera43.it – 03 Dicembre 2011

La proposta Fornero costerebbe 8 miliardi.

Reddito minimo garantito. Le tre paroline magiche sono risuonate nella bocca del ministro del Welfare, Elsa Fornero, che ha deciso di dare una speranza agli italiani, ormai consapevoli che il governo più che riempire le loro tasche le svuoterà. Davanti agli entusiasmi, Fornero ha però precisato che la sua è una «preferenza personale che non impegna il programma del governo». Per ora comunque la proposta è stata fatta. E potrebbe essere rivoluzionaria.

UN DIRITTO PER LA COMMISSIONE EUROPEA. Anche solo per il fatto che l’Italia è l’unico Paese insieme con Grecia e Ungheria a non avere questa misura. Nonostante fin dal 1992 la Commissione europea abbia adottato una risoluzione (n. 441) in cui è stato definito il reddito minimo garantito (la disponibilità delle risorse minime necessarie per vivere una vita libera e dignitosa) come un diritto sociale fondamentale. E abbia esortato gli Stati membri a istituire un quadro giuridico che garantisca questo diritto.
Il Parlamento europeo ha più volte sottolineato l’urgenza che tutti gli Stati membri introducano schemi di garanzia del reddito minimo (detto anche reddito di cittadinanza, reddito di esistenza, renta minima, basic income), per coloro che sono a rischio di esclusione sociale: giovani in attesa di prima occupazione, disoccupati e persone in condizione di marginalità, attribuendo a ognuno almeno il 60% del reddito medio riferito a ciascun Paese (oltre a misure aggiuntive come aiuti o tariffazioni agevolate per gas, luce, affitti e trasporti o per spese straordinarie e urgenti).

Dai 613 euro del Belgio ai 1.044 del Lussemburgo

Nei altri Paesi europei è applicata a tutti i disoccupati che hanno compiuto i 16 anni (l’unica eccezione è rappresentata dalla Francia, per la quale l’età minima per il diritto al reddito è 25 anni). Esistono inoltre integrazioni per chi svolge un lavoro il cui salario risulta inferiore ai parametri minimi per la conduzione di un’esistenza al di fuori della povertà, come per esempio i Paesi scandinavi o il Lussemburgo.

Le cifre base variano di Paese in Paese: circa 613 euro in Belgio, 425 in Francia, 645 in Irlanda, fino ai 1.044 del Lussemburgo.
BASIC INCOME NETWORK. In Italia, per ora, non c’è. Ma a studiare, progettare e promuovere interventi indirizzati a sostenere l’introduzione di un reddito garantito sono i sociologi, gli economisti, i filosofi, i giuristi e i ricercatori del Basic income network Italia, che da anni definiscono la misura «imprescindibile per costringere gli Stati e gli organi dell’Unione europea a una gestione della crisi economica internazionale improntata all’equità e alla giustizia sociale».
Tra questi c’è Andrea Fumagalli, docente di Economia politica all’università di Pavia, che raggiunto da Lettera43.it ha definito la proposta della Fornero un «grande passo avanti», rispetto soprattutto al silenzio assordante che in questi anni è risuonato nella stanze del governo.

Il ritardo italiano a causa del boicottaggio dei sindacati

«Finora non se n’è mai parlato perché non c’è mai stata la volontà politica di affrontare il problema», commenta l’economista. Nonostante dal punto di vista economico ci siano stati molti studi che hanno dimostrato la validità della misura, «si preferisce ancora una struttura di ammortizzatori sociali molto differenziata che viene gestita a livello corporativo».

L’OBBLIGO DI INTERMEDIAZIONE POLITICA. Gli ammortizzatori infatti, dai sussidi di disoccupazione, alle liste per ottenere l’indennità di mobilità e fino alle varie forme di cassa integrazione, «richiedono una intermediazione politica, invece il reddito minimo garantito no».
Il timore dei sindacati, degli enti bilaterali e territoriali «di perdere il loro potere di veto nel determinare l’accesso agli ammortizzatori» ha quindi determinato questo ritardo rispetto al resto d’Europa. Anche se negli ultimi tempi una parte del sindacato, come la Flc-Cgil (Federazione lavoratori della conoscenza) o i metalmeccanici della Fiom si sono espressi a favore, resta il fatto che la misura è stata per anni boicottata per interessi di parte, che poco hanno a che vedere con il bene dei lavoratori.

Basterebbero 8 miliardi per attuare la misura

Non si spiega altrimenti il ritardo su una misura che garantirebbe a più persone un reddito minimo. Secondo Fumagalli le attuali forme di sostegno al reddito in caso di perdita involontaria del posto di lavoro riescono infatti «a coprire meno del 25% delle persone che si trovano in questa situazione e quasi tutto il mondo del precariato ne è escluso».
UNA POLITICA DI ASSISTENZA AL REDDITO. Un limite a cui si aggiunge che in Italia manca qualsiasi distinzione tra politiche di previdenza e di assistenza al reddito. «Queste ultime dovrebbero essere invece finanziate con la fiscalità generale dello Stato anziché essere parzialmente coperte con il bilancio dell’Inps», osserva Fumagalli.
Inoltre molti hanno sempre rifiutato l’idea di elargire un reddito minimo garantito per una questione di cassa. Ma in realtà quanto costerebbe una misura di questo genere?
GARANTIRE IL MINIMO DI 600 EURO AL MESE. Nel numero uno della rivista Quaderni di San Precario gli economisti hanno fatto una stima secondo la quale arrivare a garantire a tutti i residenti in Italia un livello di reddito pari alla soglia di povertà relativa (che è di circa 600 euro al mese, con variazioni a secondo della regione), richiederebbe al massimo 25 miliardi di euro.
«La misura però», sottolinea Fumagalli, «sostituirebbe una serie di aiuti frazionati che già lo Stato stanzia per una cifra di circa 15 miliardi». Quindi facendo i conti, il costo netto sarebbe «di 7-8 miliardi di euro, una cifra abbastanza abbordabile».

Come funziona negli altri Paesi

Finora nei Paesi europei la forma di intervento di reddito minimo è di tipo condizionato, «ovvero chi accede a queste misure deve in qualche modo contro ricambiare o attraverso l’obbligo di accettazione di una forma di lavoro, qualunque essa sia, o accettando percorsi di formazione per far sì che la sua condizione precaria raggiunga livelli di stabilità», racconta Fumagalli, «Un modello a cui si ispirerà anche Fornero».

Ma l’economista suggerisce invece un modello incondizionato. Secondo Fumagalli bisogna infatti tener presente «che oggi viviamo in un mondo in cui la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro è sempre più difficile da definire anche quando si ha un contratto».
LE ATTIVITÀ PRECARIE NON REMUNERATE. Ci sono poi tutta una serie di attività soprattutto precarie, come lo stage, che addirittura non vengono remunerate. «Prestazioni produttive di valore che non sono certificate come attività lavorative e questo è un problema». Ecco perché per Fumagalli le forme di garanzie di reddito dovrebbero essere non condizionate per evitare che non venga riconosciuta quella capacità produttiva eccedente.
In Francia, per esempio, «il reddito minimo garantito viene dato a prescindere dalla condizione professionale, non solo ai disoccupati», spiega, «ma deve essere accompagnata dal salario minimo per evitare l’effetto dumping», spiega Fumagalli.
FISSARE UN MINIMO SALARIALE ORARIO. Un modello, quello francese, che l’Italia potrebbe prendere a esempio, «serve però un intervento legislativo che stabilisca che un’ora di lavoro non può essere pagata meno di un certo tanto». Il rischio è infatti che chi ha un reddito minimo ma non un salario minimo, diventi vittima del datore di lavoro che può abbassare il costo della prestazione richiesta approfittando del fatto che il lavoratore ha già il reddito minimo dato dallo Stato.
In Italia però questa misura non esiste «per l’opposizione dei sindacati che hanno sempre sostenuto che se venisse fissato un salario minimo questo toglierebbe importanza ai contratti collettivi di lavoro», spiega Fumagalli.
Ma questo aveva un senso quando i contratti collettivi coprivano la stragrande maggioranza delle prestazioni lavorative e decidevano quindi il salario minimo, «ma visto che oggi abbiamo la metà della forza lavoro che non è contrattualizzata, specie nel terziario, non ha senso».

Meglio studiare un modello di “secur flexibility” anzichè di “flexsecurity”

San Precario imperversa in Rete. Dal 2004 il santo patrono di sfrattati, poveri, sottooccupati, sfruttati, ricattati, Co.Co.Co, assunti non in regola e dipendenti a termine è diventato il punto di riferimento per molti lavoratori.San Precario imperversa in Rete. Dal 2004 il santo patrono di sfrattati, poveri, sottooccupati, sfruttati, ricattati, Co.Co.Co, assunti non in regola e dipendenti a termine è diventato il punto di riferimento per molti lavoratori.

Infine se mai la misura sarà inserita nel programma del ministero del Lavoro, bisognerà riflettere sul fatto che sarà controbilanciata da interventi di ulteriore flessibilità del mercato del lavoro attraverso la logica della flexsecurity «che prevede una prima fase di flessibilizzazione del mercato del lavoro in modo da aumentare la competitività delle aziende e generare quel reddito necessario per finanziare la sicurezza sociale. «Un meccanismo che ha funzionato in alcuni a Paesi come la Danimarca dove però c’è un contesto produttivo diverso».
PRIMA LA SICUREZZA, POI LA FLESSIBILITÀ. In Italia sarebbe invece più utile parlare di «secur flexibility», dice Fumgallli, ovvero flessibilizzare il mercato del lavoro solo dopo aver garantito la sicurezza sociale attraverso forme di reddito minimo. Un processo che metterebbe in moto un circolo virtuoso, «Invece in Italia negli ultimi 20 anni si sono fatti processi di flessibilizzazione rimandando a dopo il tema della sicurezza sociale e la riforma degli ammortizzatori».
La scusa è sempre stata la stessa: mancano i soldi, c’è il debito pubblico, servono politiche di austerity. «Così abbiamo creato solo un circolo vizioso per cui la produttività viene messa a rischio da un eccesso di precarizzazione del lavoro e questo ha minato anche la capacità di accumulazione, ritorcendosi contro lo stesso capitalismo».

 

di Antonietta Demurtas

Il totalitarismo dell’era presente

nazioneindiana.com – 11 novembre 2011

Siamo arrivati al capolinea. Adesso inizia un’altra corsa. A guidare l’aereo più pazzo del mondo c’è Mario Monti. Già international advisor di Goldman Sachs (il cui ruolo nello scatenamento della crisi globale è noto), e membro di Trilateral e Bilderberg, insomma il gotha del capitalismo mondiale. Non sarà che con lui la finanza ha preso il controllo diretto del paese, dopo che il messo Silvio Berlusconi ha fallito per eccesso di amor proprio? Del resto proprio Monti ha affermato: “Berlusconi va ringraziato, nel ’94 ci salvò dalla sinistra di Occhetto e avviò la rivoluzione liberale in Italia”. Ma appunto poi questa rivoluzione liberale non è stata fatta, e allora ci si prendono le chiavi di casa. Consegnate direttamente dai derubati, peraltro, implorando mercé.

Nessuno, sui grandi media, dice una verità essenziale: che il 90% dei derivati – lo strumento principale della speculazione finanziaria internazionale – è controllato da cinque grandi società (Deutsche Bank, Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS, HSBC). Nessuno dice che 10 banche e Sim (società di intermediazione mobiliare) controllano circa il 70% dei flussi finanziari mondiali: un controllo indiretto, nel senso che non ne hanno evidentemente la proprietà, ma li gestiscono e ne determinano il senso. Questo controllo oligopolistico globale determina conseguenze molto concrete sulle vite delle persone. Per questo si parla di biopotere.
Così, adesso, si è deciso di attaccare l’Italia. Come ha ben spiegato Andrea Fumagalli, uno degli economisti più lucidi in circolazione, non c’erano motivi particolarmente drammatici per arrivare al collasso in cui siamo precipitati. Il rapporto debito-pil viaggia al 120%, più o meno come vent’anni fa. Più preoccupante, se mai, la situazione degli Usa, dove il rapporto è del 100%, dove però cinque anni fa era al 60%. I motivi, allora, sono inerenti alla stessa logica interna al finanzcapitalismo.
Dopo che la Goldman Sachs ha fatto a pezzi la Grecia (vedi qui), la Deutsche Bank ha fatto a pezzi l’Italia.
Seguo ancora Fumagalli: da aprile 2011 la Deutsche Bank ha iniziato a vendere 8 miliardi di Btp: non molto, ma nel meccanismo emulativo proprio dei mercati finanziari (dove la determinazione del valore dipende da comportamenti mimetici, basati sull’autorevolezza dell’attore) ciò ha generato aspettative che si sono espanse a macchia d’olio. Di qui, la quotazione dei titoli alla borsa di Londra, che a maggio era ancora 102, a giugno scende a 90. Questa è schock economy. Oppure possiamo anche chiamarlo terrorismo finanziario.
Perché la Deutsche Bank ha fatto questo? Perché se attivi aspettative al ribasso, il valore degli altri titoli che assicurano contro il fallimento – i Cds, credit default swaps – schizzano alle stelle. Il valore di questi Cds infatti è salito di cinque volte. E chi detiene gran parte di questi titoli assicurativi? Cinque società, e più degli altri la Deutsche Bank stessa. La Deutsche Bank ha fatto un doppio guadagno: prima ha venduto i Btp a un prezzo buono (poi appunto si sono deprezzati), dopodiché ha generato enormi plusvalenze grazie al rialzo dei Cds.
A questo occorre aggiungere poi il ruolo che la Germania ha successivamente svolto nello scaricare la crisi sui Btp salvaguardando le sue banche piene di quei titoli tossici che hanno dato origine alla crisi mondiale (vedi qui).
Insomma, tutto sembra dirigersi verso una direzione chiara: sacrificare un intero paese alle logiche delle plusvalenze. Chi è in grado, adesso, di impedire la macelleria sociale che verrà? C’est la lutte finale, verrebbe da cantare.

di Marco Revelli

 

Precari, è rivolta sul web

3 novembre 2011 – L’Espresso

Un progetto on line chiamato WikiStrike. Per riunire tutti i lavoratori senza diritti e sottopagati. Confrontandosi sul «nuovo schiavismo». E sognando «il primo sciopero mondiale dell’era digitale»

«Guadagno 500 euro al mese rispondendo al telefono, affitto il desk e faccio fattura come un notaio». «Sono laureata in comunicazione, e passo di lavoretto in lavoretto da tre anni». «Pensa, lavoro in una società di recupero crediti e mi rinnovano ogni mese». «Collaboro saltuariamente con un grande giornale, mi pagano 50 euro a pezzo. E sono fortunato». La disoccupazione giovanile ha toccato vette del 30 per cento e spesso l’unico modo per procurarsi un reddito è di accettare dei “macjob”, lavori precari, sfruttati e malpagati. La precarietà non ti permette di progettare, di pensare al futuro, di immaginarti adulto. Ti fa andare in depressione. O scoppiare di rabbia. E’ per questo che anche i giovani ricominciano a parlare di lavoro. Soprattutto in rete.

Nasce così, da tanti contributi e testimonianze via Web, ‘Wikistrike’,  il primo libro-manifesto di San Precario, il collettivo senza padri, padrini e padroni nato nel 2004 e santificato ogni primo maggio durante la MayDay, la marcia dei precari d’Europa. Il testo stampato e distribuito in molte situazioni collettive, manifestazioni, riunioni e convegni, è un vero vademecum contro la precarietà esistenziale.

‘Wikistrike’ vuole essere denuncia e riscatto, richiesta di cospirazione («co-spirare è respirare insieme»): nel manifesto riecheggiano molti dei motivi che negli anni hanno portato i movimenti sociali a rivendicare un reddito garantito per tutte e tutti, indipendentemente dal fatto che si lavori o meno (vedi la rete BIN – Basic income network), ed è una critica feroce al sistema liberista e al capitalismo familiare del nostro paese che precarizza tutti rendendoci nemici: «I disoccupati diventano nemici degli atipici, che competono con i garantiti, e tutti insieme se la prendono coi migranti», si dice ad esempio.

Non assolve nessuno, il manifesto precario, dal pacchetto Treu che ha portato la precarietà in Italia nel 1997 fino alla legge Biagi del 2007 e al collegato lavoro del 2010, cioè al maxicondono per le aziende che hanno approfittato del lavoro precario.

Wikistrike non si limita a semplici rivendicazioni, è un invito all’azione che denuncia da una parte la disillusione nei confronti delle opzioni riformiste dei difensori del libero mercato, dall’altra, la consapevolezza di quanta ideologia e costruzione del consenso si nasconda dietro le magnifiche e progressive sorti della comunicazione d’impresa e del marketing e, in perfetto stile subvertising, ne ribaltano il segno.

I wikistriker sono infatti fratelli sia degli Steveworkers, i “Lavoratori di Stefano” che oggi hanno un proprio hashtag su Twitter per «decostruire l’apologetica e acritica ricostruzione della figura di Steve Jobs (Stefano Lavori)» il quale, dicono, «nella presunta moltiplicazione degli iPani e degli iPesci« avrebbe reso felice mezzo mondo e schiavizzato il resto. Sono parenti di Lutherblisset, l’agitatore culturale collettivo che, nelle sue varie declinazioni, ha contribuito a creare una contronarrazione delle sorti del capitalismo cognitivo e dell’innovazione tecnologica, a cominciare da quanto raccontato nella newsletter Giap! sullo sfruttamento dei lavoratori cinesi della Apple.

E molti di loro sono gli stessi di #occupyInternet (che manifestano digitalmente su circa 200 siti nel mondo), che sono gli stessi di #occupyWallStreet, che sono gli stessi dei campeggi indignados, eccetera eccetera.

I wikistriker non sono nati oggi. Semplicemente declinano in digitale la rabbia, le utopie e le rivendicazioni dei lavoratori della Silicon Valley di trenta anni fa raccontati magistralmente dalla rivista Processed World (Ribellione nella Silicon Valley. Conflitto e rifiuto del lavoro nel postfordismo, ed. Shake, 1998), snocciolando tecniche di guerriglia semiotica e liste di azioni di sabotaggio da applicare nel mondo del lavoro immateriale. Come? «Immaginate se per un giorno non funzionassero i trasporti, se non arrivassero le merci della grande distribuzione, se si intasasero i call center e i server informatici, se non rispondessimo al telefono. Siete sicuri che quando una cosa non funziona sia casuale? Siete sicuri che non ci sia in azione un wikistriker stanco e sfruttato? ».

di Arturo Di Corinto

Precari del Comune di Milano: “Traditi dalla Giunta”. Palazzo Marino fissa due incontri

da Ilfattoquotidiano di Lorenzo Galeazzi – 9 ottobre 2011

L’assessore con delega alle Risorse umane Bisconti incontrerà lavoratori a tempo determinato e parti sociali in due tavoli, ma nel frattempo crescono rabbia e delusione. In un dossier, il coordinamento denuncia: “Mentre Pisapia ci lascia a casa assume 43 consulenti a nomina diretta”.
Dopo mesi di silenzio e disoccupazione, sul fronte dei precari del Comune di Milano qualcosa comincia a muoversi. I lavoratori lunedì pomeriggio incontreranno l’assessore con delega alle Risorse umane Chiara Bisconti mentre martedì è in programma un vertice con Comune e parti sociali. Ma, per stessa ammissione dell’esponente della giunta Pisapia, sull’argomento si naviga ancora a vista. Non si conosce nemmeno il numero esatto delle persone che, a vario titolo, lavorano a tempo determinato per l’amministrazione milanese. Né Palazzo Marino, né la Cgil e nemmeno il coordinamento dei lavoratori precari. Eppure fra personale amministrativo, educatori e docenti si stima che siano circa settecento (alcuni anche con dieci anni di precariato), un numero che si è ridotto costantemente a partire dal gennaio 2011, quando molti di loro sono stati lasciati a casa. Ma, anche su questo argomento, cifre esatte non ce ne sono.

“Non solo non possiamo assumere i precari, ma ci troviamo anche nella situazione paradossale di dover fronteggiare le carenze d’organico”, rivela Bisconti che ha ricevuto dal sindaco la delega alle Risorse umane solo lo scorso 16 settembre: “Infatti sto ancora studiando la situazione e i due incontri in programma mi aiuteranno ad avere una mappatura, primo gradino per provare a risolvere il problema”. In attesa di trovare una soluzione che possa salvaguardare l’occupazione, l’amministrazione sta facendo lavorare interinali e cooperative al posto dei tempi determinati. “Siamo obbligati – si difende Bisconti – perché questo è l’unico modo per garantire i servizi ai cittadini e per fare lavorare almeno un po’ di persone che sono state lasciate a casa”.

Nel frattempo sul fronte precario montano rabbia e delusione. “Siamo stati traditi dall’attuale giunta – attacca una lavoratrice che chiede di rimanere anonima – Le promesse di cambiamento della campagna elettorale per il momento sono rimaste lettera morta”. Il coordinamento che si occupa di loro ha prodotto un dossier in cui denuncia come, a fianco dei tagli in organico, Palazzo Marino abbia assunto 43 collaboratori esterni che costeranno alle casse (vuote) del Comune la bellezza di 2,2 milioni di euro all’anno. “Mentre la giunta ci lascia a casa – accusa Carmen, una delle animatrici del coordinamento – assume con contratti più che generosi raccomandati e ‘famigli’ del sindaco e degli assessori”. Nel decidere queste nomine, accusano i precari, non si è tenuto minimamente conto delle risorse interne che erano già a disposizione dell’amministrazione. “La giunta non ha svolto nessuna indagine conoscitiva – denunciano nel dossier – nessun colloquio fra i 15mila dipendenti a tempo indeterminato e fra le centinaia di precari che da anni garantiscono la copertura dei servizi, preferendo assumere collaboratori esterni a chiamata diretta”, mediante l’ex articolo 90. “Alla faccia dei video-messaggi di Corritore (direttore generale del Comune, ndr) nei quali, solo a luglio, dichiarava di voler valorizzare le risorse interne dell’amministrazione”, dice sarcasticamente Carmen sottolineando come tutte le nomine ad personam siano paradossalmente partite pochi giorni dopo quell’annuncio.

Ma il j’accuse sulle assunzioni degli ex articoli 90 non convince tutti. “Hanno sbagliato obiettivo – dice Tatiana Cazzaniga della Cgil Funzione pubblica – perché i nemici del loro futuro sono altri: il collegato lavoro, l’articolo 8 della Finanziaria e il Patto di stabilità che decreta il blocco delle assunzioni”. Eppure questa estate era stata la stessa Cgil che in un comunicato aveva evidenziato la disparità del trattamento economico fra i contratti degli ex articoli 90 e gli altri dipendenti, uno “squilibrio intollerabile per i dipendenti comunali di pari livello”.

Da parte dell’amministrazione fanno sapere che lavoratori a tempo determinato e consulenti sono settori che viaggiano su binari e capitoli di spesa diversi, però garantiscono che faranno il possibile per risolvere il problema. “Dagli incontri dei prossimi giorni usciremo sicuramente con una road map per sistemare la situazione”, assicura il capo delle Relazioni esterne che si appresta a incontrare precari e rappresentanze sindacali. Nel frattempo però proseguono le cause che, a partire da gennaio (quando è entrato in vigore il collegato lavoro), i lavoratori hanno fatto al Comune per vedersi riconosciuto un contratto a tempo indeterminato. L’amministrazione potrebbe andare verso una conciliazione? “E’ presto per dirlo – risponde Bisconti – ma stiamo valutando tutte le soluzioni per trovare una via d’uscita”. Anche dal fronte precario fanno sapere di essere più che disponibili ad accettare soluzioni creative: “Come la certezza di avere almeno sei mesi di retribuzione in un anno, in modo che nei momenti di non lavoro si possa accedere alla disoccupazione”.

Il punto però è sempre quello. Il buco di bilancio (si parla di 350 milioni) con cui Milano sforerà il Patto di stabilità che decreterà il blocco delle assunzioni. E, se la giunta non interviene, ancora una volta a farne le spese sarà l’anello più debole: i precari.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/09/precari-del-comune-di-milano-traditi-dalla-giunta-palazzo-marino-fissa-due-incontri/163145/