Oltre il welfare verso il commonfare

Riappropriazione della ri/produzione sociale, riappropriazione della rendita sociale

CONVEGNO INTERNAZIONALE UNINOMADE

Tra proteste e occupazioni di piazza che mettono esplicitamente in scena il diritto a un nuovo modo di stare nel mondo, il potere imperiale diffonde su tutto il globo il mantra dell’austerità. Mentre vengono immaginate e proposte ulteriori restrizioni economiche che rischiano di allargare ulteriormente la povertà e il rancore sociale, noi siano convinti di avere una responsabilità. Non vogliamo l’assegnazione di un posto tra i cosiddetti “saggi”, la casta dei tecnocrati che vengono proclamati salvatori del Paese e dell’Europa. Noi vogliamo saggiamente ragionare, dentro una dimensione transnazionale, di problematiche inerenti il nostro futuro di uomini e donne.

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La Corte Costituzionale inaugura la stagione del dispotismo occidentale

Uninomade.org – 14 novembre 2011

Sui giornali non c’è traccia della notizia, ma il 9 novembre la Corte Costituzionale ha pubblicato una sentenza che suona come violenta aggressione ai diritti e alle aspettative dei precari. La questione riguarda la legittimità costituzionale dell’art. 32 Legge n. 183/2010, meglio nota come Collegato Lavoro o, con linguaggio più colorito, Ammazzaprecari. Oltre ad introdurre la tagliola temporale di soli 60 giorni per impugnare i contratti di lavoro instabili (a progetto, somministrati, a termine, partite iva e chi più ne ha più ne metta) l’art. 32 limita il risarcimento del danno, pone un tetto, così che i tempi lunghi del processo vengano posti a carico non delle imprese, ma dei soggetti deboli. Se occorrono tre anni per spuntarla l’impresa comunque non rischia mai più di un anno (precisamente da 2,5 a 12 mensilità, ridotte a sei in presenza dell’immancabile accordo sindacale. La sentenza rischia di essere uno tsunami per centinaia di precari stabilizzati delle Poste, della telecomunicazione, del trasporto, della logistica. Le sentenze precedenti infatti avevano riconosciuto tutte le retribuzioni perse e i precari stabilizzati, nel frattempo, hanno già incassato e speso i quattrini del risarcimento, pagandoci anche le imposte. Abbattendo i principi del vecchio stato liberale ora la Corte Costituzionale introduce il principio di retroattività per cui questi disgraziati si ritrovano, dopo anni, a vincere la causa ma a dover restituire venti, trenta, quarantamila euro (di cui un terzo già mangiati dalle imposte trattenute alla fonte); e sono migliaia di soggetti deboli in tutta Italia.

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S.G.P. 2.0 Report: “I Quaderni di San Precario / I Quaderni del Reddito del BIN”

Sabato pomeriggio si è svolto il workshop di presentazione dei Quaderni di San Precario> e dei Quaderni per il Reddito a cura del Bin-Italia (Basic Income Organization).

San Precario non è solo ironia, non è solo apparizioni ed azioni, non è solo MayDay – il 1° Maggio precario – è anche elaborazione, analisi, visione, proposte per “contribuire alla necessaria e non rinviabile rivoluzione copernicana” per “rovesciare l’interpretazione sottomessa dei codici, delle leggi, del ciclo produttivo, della composizione di classe” rivendicando “con orgoglio nella pratica come nell’elaborazione teorica un punto di vista precario”.

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S.G.P.#6 I Quaderni di San precario, ovvero strumenti in movimento.

Organizza: Quaderni di San Precario, UniNomade Genova, Torino, Milan. Sabato 15 Gennaio, sala 2, orario 14.00 – 15.30

La presentazione del primo numero della rivista si fa, a un tempo, workshop. Quando la narrazione diventa inchiesta. Quando la lotta dà lezione. Quando la condivisione di sapere critico consente non solo di resistere ma di attaccare, diventando proposta alternativa reale.
I Quaderni di San Precario sono frutto della collaborazione di una tribù assai eterogenea, composta da singoli soggetti e realtà di attivisti e ricercatori che si muovono tra Milano, Torino, Genova con sconfinamenti verso Brescia, Bergamo e Pavia. Essi rappresentano, in particolare, la gemmazione spontanea nata dall’incontro della rete di Intelligence Precaria e della MayDay, che da anni anima le lotte sul precariato a Milano, con alcuni componenti del collettivo di Uni Nomade 2.0.

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Ontologia della precarietà. Dopo il 14 dicembre

Uninomade.org – 21 dicembre 2010

Le mobilitazioni e le lotte degli ultimi mesi hanno visto in azione figure molte diverse tra loro, dagli studenti ai migranti, dai ricercatori agli operai fino all’esplosione del 14 dicembre a Roma. Usano tutte una lingua comune che fa ancora (incredibilmente) fatica a farsi intendere e che necessita perciò di traduzioni forti e chiare. Parlano dell’era della precarietà ontologica che stiamo attraversando e che ritrova adesso accenti nuovi e nuove suggestioni.

Facilmente sfugge questo tratto effettivamente “comune”, che pure è ciò che fa la “differenza”. Combattendo per/nella propria situazione lavorativa, per abitudine, cultura, tradizione, riflesso, si tende a esporre la propria condizione professionale, il mestiere che si fa, il “ruolo”, che si ricopre all’interno della società – e che è proprio ciò che la norma socio-economica contemporanea impone e, contemporaneamente, scompagina e manda in crisi. E’ il retaggio dell’etica di un lavorismo in frantumi che si fa malinconico e reazionario: si esiste perché si lavora e si fa “quel” particolare lavoro i cui contorni non esistono più. A che cosa serve rincorrerli? La logica secondo la quale è il diritto al lavoro a sancire il diritto all’esistenza fa fatica a essere superata, tuttavia (non ci pare una notizia) tutto è già successo da un pezzo. Lavoratrice del call center, magazziniere o lavoratore della conoscenza, ciò che unisce questi soggetti è la medesima precarietà ontologica. Non è più il tempo di farci prendere dal rimpianto, dal senso della perdita e del vuoto che dà la vertigine: questa gamma così ampia di figure del lavoro e del non-lavoro è potenzialmente potente, si presta ad alleanze inedite, assai composite e larghe, per nulla corporative, dove minore è lo spazio della battaglia per il lavoro e maggiore quella per l’umano – che detta anche nuovi scopi al conflitto. Fossimo capaci di comprendere bene i toni di questa lingua, sarebbe giàrevolution.

Siamo almeno vicini a una svolta? L’elevata radicalità espressa dalla piazza del 14 dicembre ci parla esplicitamente dell’emergere di questo sentimento “comune” che comincia a non aver più freni: è il sentito della condizione precaria che esonda e con ciò travalica e tracima il senso di appartenenza a ogni vecchia categoria del mondo. Quanto meno, rotazione.

La condizione di precarietà ha assunto, nel tempo, forme nuove. Il lavoro umano, nel corso del capitalismo, è sempre stato caratterizzato da precarietà più o meno diffusa a seconda della fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur in forma minore, nel capitalismo fordista. Ma, in tali periodi, si è sempre parlato di precarietà della condizione di lavoro: lo svolgimento di un lavoro prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo di lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. La lotta sindacale del XIX e del XX secolo è sempre stata tesa a ridurre il tempo di lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo industriale-fordista a quello bio-cognitivo, il lavoro cognitivo e relazionale si è diffuso sino a definire le modalità principali della prestazione lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola, organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello e il bios (la vita) diventano parte integrante del lavoro, anche la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde senso. Ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro comportamenti e si trasforma in precarietà esistenziale.

Nel bio-capitalismo cognitivo, la precarietà è, in primo luogo, soggettiva, quindiesistenziale, quindi generalizzata. È, perciò, condizione strutturale interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro, esito della contraddizione tra produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra cooperazione sociale e gerarchia.

La condizione precaria non è oggi ancora in grado di esprimere una classe “precaria”, non esiste un processo omogeneo di presa di coscienza. Diversamente dalla condizione lavorativa manuale, per la quale era la condizione oggettiva di lavoro, in quanto “esterna” alla persona, a determinare  il livello di coscienza di sé, nel bio-capitalismo cognitivo, se la prestazione lavorativa diviene quasi totalmente interiorizzata, la presa di coscienza o è autocoscienza o non è.

Qui sta il nodo che definisce oggi la composizione sociale del lavoro contemporaneo e quindi la sua composizione politica. Qui sta la drammaticità della condizione precaria. Il 14 dicembre – anche al di là delle intenzioni degli organizzatori – rappresenta invece il primo momento di rivolta dei soggetti a tale condizione.

Nel nome della lotta alla precarietà (spesso stupidamente concepita come “abolizione del precariato”: ma quando mai, nel Novecento, si è parlato di abolizione del “proletariato”? Piuttosto si è puntato a un suo superamento…), si sono commesse nefandezze ideologiche.  Perché? Perché si è fatta fatica a indagare la complessità (moltitudine) del soggetto precario. Perché, al contempo, si è preferito considerare la condizione precaria come condizione “oggettiva” e non come espressione di una soggettività molteplice. Perché la precarietà è stata interpretata come espressione di una condizione lavorativa che si presenta immediatamente e “neutralmente” uniforme e omogenea.

Non è un caso che il termine “precario” sia fin troppo abusato di questi tempi ma ciò non toglie che  non si parli di condizione precaria. Piuttosto si parla di singoli segmenti di lavoro precario (il ricercatore universitario, l’interinale metalmeccanico, il migrante), ovvero di componenti della condizione precaria, quasi a voler a tutti i costi individuare un particolare soggetto economico, centrale, avanguardistico, che faccia da detonatore alle lotte di tutti gli altri.

Se si vuole analizzare la composizione sociale e politica del lavoro contemporaneo, il tema della precarietà deve essere assunto come paradigmatico del rapporto capitale-lavoro e non come conseguenza di una specifica (specifiche) situazione lavorativa. E’ necessario invertire l’ordine dei fattori. Non è la condizione operaia (pensando alle recenti lotte della Fiom e dei metalmeccanici), non è la condizione dei lavoratori dei call-center e, più in generale, dei servizi materiali (coop di magazzinaggio, ecc., ecc.), non è la valorizzazione delle condizioni dei lavoratori della conoscenza (dall’università ai media), ad essere precarizzata, ma è la condizione precaria a essere il paradigma che fa da cerniera a tutte queste diverse condizioni di lavoro insieme. E ciò avviene prendendo a modello il lavoro migrante e il lavoro femminile di cura e relazione.

Si tratta di una differenza sostanziale e politica. Si tratta di riconoscere che la condizione precaria, soggettivamente percepita in modo differente, viene prima dell’essere migranti, chainworker, operai, cognitari. Occorre prendere atto che la nuova divisione del lavoro va oltre la divisione settoriale e smithiana del lavoro.

A metà ottobre, a Milano si sono svolti gli Stati Generali della Precarietà: un primo tentativo di mettere al centro la condizione precaria, (/stati-generali-2010). Si tratta, infatti, di sviluppare un punto di vista precario, ovvero una proposta di ricomposizione sociale della soggettività precaria che sul tema della garanzia di reddito e della riappropriazione del comune costruisca per intero – nel modo più preciso e consapevole – la propria identità conflittuale. Un nuovo appuntamento degli Stati Generali della Precarietà è previsto per metà gennaio, sempre a Milano.

Benedetto Vecchi, sulle pagine de Il Manifesto ha fatto bene a richiamare la necessità di indire a breve gli Stati generali della Conoscenza. Essi si dovrebbero, tuttavia, collocare all’interno di un percorso che vede negli Stati Generali della Precarietà un momento ricompositivo e politicamente rilevante: è la condizione precaria che ha soprattutto bisogno di assumere sempre maggior coscienza di sé. Altrimenti, il rischio è quello di continuare a proporre punti di vista innovativi e interessanti ma frammentati e parziali, ancora una volta ingabbiati solo nella propria particolarità professionale. A proposito di lavoratori della conoscenza: più di un anno fa, sono stati redatti il “Manifesto” e la “Carta dei diritti dei lavoratori della conoscenza” (/materiale). Testi innovativi e radicali, che hanno ottenuto ampio consenso, ma si sono dimostrati incapaci di creare e sviluppare quelle sinergie necessarie a ricomporre la capacità conflittuale del precariato.

L’insorgenza del 14 dicembre a Roma esige attenzione. Per la prima volta, una nuova generazione precaria (guarda caso, non definibile nei termini della segmentazione tradizionale del lavoro) si è fatta sentire. Non facciamo finta anche noi di non capire che cosa dice.

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI