Job act: dal lavoro precario al lavoro gratuito

tutelecrescenti1. Ha ragione Renzi quando afferma che con l’approvazione definitiva del Job Act l’Italia volta pagina. L’Italia cambia, e sicuramente in peggio.

2. Il Job Act segna la definitiva chiusura del processo di precarizzazione del mercato del lavoro in Italia. Nel momento stesso in cui la precarietà diventa condizione istituzionalizzata di lavoro e di vita e quindi fattispecie “tipica” dei rapporti di lavoro, essa smette di rappresentare un problema. Non essendo più eccezione ma norma si dà per risolta ogni contraddizione a essa correlata.

3. Si apre così un nuovo possibile fronte da sfondare sul mercato del lavoro. L’obiettivo non è più quello della precarizzazione generale ma quello del lavoro gratuito. “Risolto” il primo passaggio grazie alla sua generalizzazione e istituzionalizzazione, la nuova frontiera dei processi di sussunzione, subalternità, sfruttamento dell’essere umano al capitale diventa direttamente il “donarsi” al capitale stesso. Assistiamo a una metamorfosi, impensabile solo qualche anno fa, con il rischio che si ripetano tutti gli errori di incomprensione che hanno caratterizzato per un trentennio lo spostamento del confine della regolazione del rapporto dal lavoro stabile a quello precario. Incomprensione (o peggio, complicità?) che, in nome dell’illusoria prospettiva di crescita dell’occupazione, ha portato le forze sindacali ad accettare progressivamente lo smantellamento dei diritti del lavoro, sino a rendere poco credibili le stesse organizzazioni sindacali agli occhi delle giovani generazioni e favorirne la spoliticizzazione.

4. Il modello del lavoro gratuito (introdotto in forma istituzionale, dall’accordo del 23 luglio 2013 relativo all’Expo2015 di Milano e salutato come esempio da estendere a tutta l’Italia, come è poi successo con il piano Garanzia Giovani del Ministro Poletti del 1° maggi 2014) può diventare il martello per scolpire un nuovo sistema delle relazioni industriali in Italia. Ciò che Renzi vorrebbe introdurre, in nome della consueta lotta alla disoccupazione giovanile (ça va sans dire), è una nuova concezione nella quale l’intermediazione dei corpi intermedi (politici, sociali e sindacali) viene del tutto annichilita. Al riguardo, i dati parlano chiaro. Riguardo il grande evento di Expo2015, a fronte dei 70mila posti di lavoro annunciati nel dossier di candidatura, oggi sono stati fatti poco più di 4000 avviamenti, per lo più a termine e precari. L’introduzione del lavoro gratuito (quasi 18.000 volontari) non ha dunque una finalità di crescita occupazionale e economica, ma tutt’altro. Si vorrebbe infatti introdurre una mutuazione che potremmo definire “antropologica”, dove due nuovi elementi diventano il perno del rapporto di lavoro. 1. la remunerazione diventa sempre meno monetaria e sempre più simbolica, il cui valore varia a seconda delle vite interessate. 2. l’attività lavorativa, nel momenti stesso in cui non è direttamente remunerata, è attività di vita. Si sviluppa in tal modo un processo di sussunzione vitale che non prende in considerazione le forme di organizzazione del lavoro, ma prescinde da essa.

5. Tale modalità di prestazione lavorativa prende piede per il momento nelle produzione a maggior intensità cognitiva e relazionale, laddove l’elemento del riconoscimento, sia a livello individuale che sociale, risulta maggiore e dove il simbolismo (relativo, mutevole e individuale) dell’ambito relazionale si trasforma in una modalità di remunerazione della soggettività produttiva. Assistiamo al venir meno del processo di salarizzazione, una costante del processo di sussunzione formale, prima, e di sussunzione reale (nell’epoca del taylorismo) poi, a favore di una salarizzazione immateriale (appunto simbolica) proprio laddove la produzione diventa sempre più immateriale. Il lavoro di cura (badante), del soldato (mercenario), dell’agente di repressione (poliziotto) così come il lavoro della logistica materiale (magazziniere) e dell’agricoltura (raccoglitore, soprattutto migrante) sono ancora oggi salarizzati, benché in modo decrescente e sottoposto a dumping. Il lavoro intellettuale-cognitivo e relazionale è sottoposto, sempre più, a procedure di controllo, di standardizzazione e lobotomizzazione.

6. Il job Act istituzionalizza tutto ciò, ma va anche oltre. Oltre alla mutuazione antropologica di cui abbiamo appena parlato, il Job Act introduce anche un sostanziale e grave cambiamento non solo delle relazioni sindacali ma anche del ruolo legislativo del parlamento. Finora il parlamento ha svolto principalmente la funzione di approvare i decreti legge imposti dal potere esecutivo. Nei suoi primi 10 mesi di governo, Renzi ha fatto approvare oltre 20 decreti leggi, con più di 40 voti di fiducia. Il parlamento è così sempre più diventato organo di passiva ratificazione di decisioni dell’esecutivo perdendo di fatto autonomia legislativa. Con il Job Act si aggiunge un fatto nuovo: la sua approvazione finale (manco a dirlo con voto di fiducia al Senato) di fatto concede una delega al governo perché una serie di provvedimenti, non secondari ma che costituiscono l’ossatura portante del provvedimento (definizione dei criteri del licenziamento disciplinari, durata del periodo di prova con licenziamento free nel contratto a tutele crescenti, definizione dei parametri per accedere agli ammortizzatori sociali,,,) verranno presi successivamente, emanati direttamente dal governo, senza più la necessità di essere approvati dal Parlamento. Non più ratificazione passiva, dunque, ma annullamento parziale della capacità legislativa. Assistiamo così all’ennesimo golpe costituzionale, dopo quelli perpetrati da Napolitano (per consiglio altrui) quando impose il governo Monti e il governo della larghe intese Letta-Alfano.

7. La proclamazione dello sciopero della Cgil il prossimo 12 dicembre (anniversario di P.za Fontana, data che ricorda precedenti tentativi golpisti nella storia della repubblica italiana) è importante ma rischia di essere inefficace, se si limita alla richiesta di un nuovo modello di concertazione. Il sindacato, quando ha perseguito la strada del continuo compromesso al ribasso e negato il suo potenziale conflittuale, ha almeno sempre ottenuto il riconoscimento di essere parte sociale contraente. Oggi si trova a sbattere contro una porta che qualcun altro gli ha chiuso davanti. Il nuovo corso renziano, – l’Italia cambia pagina – non prevede (né vuole) forme di intermediazione. L’imposizione mediatica del dialogo diretto governo-cittadino (così ipocritamente sbandierato come nuova modalità dell’azione politica) si traduce nell’esercizio di un potere che non può avere contradditorio né discussione.

8. La democrazia, anche quella formale, vive così tempi grami. Oltre al suo significato economico e sociale, il Job Act sancisce la fine del rapporto dialettico tra le parti sociali e della tripartizione del potere. Da un lato, istituzionalizza la precarietà, dà il via libera al lavoro gratuito come futuro paradigma del lavoro stesso (in linea con altri provvedimenti del passato), dall’altro rappresenta il primo esempio di esautoramento effettivo e non solo formale (come è avvenuto sino ad oggi), del Parlamento.

9. Bisogna essere realisti. La situazione economica e politica, alla luce di questi eventi, è confusa e disperante, per questo potrebbe essere eccellente. Il potere esecutivo (quello dei poteri forti) si dimostra per quello che abbiamo sempre pensato, Un potere di coercizione sulle nostre vite che oggi getta la maschera paternalistica dell’emergenza per assumere quella dell’arroganza. Si manifesta come espressione di un biopotere che oggi allunga la sua “manus operandi” sino a imporre, spesso con la forza, un “modus cogitandi”, in grado di penetrare e depotenziare le soggettività del lavoro strette tra ricatto, frustrazione, senso di impotenza e necessità di sopravvivenza. Non più semplice disciplina del lavoro ma governance della vita tra debito e precarietà e illusorietà autoreferenziale. Non più semplice e solo controllo dei corpi, dell’espressione politica e della mobilità Oggi parliamo di controllo dei processi formativi e di controllo sociale biopolitico, di cui la condizione precaria rappresenta il massimo livello di sussunzione delle soggettività e della vita.

10. Sul piano politico, registriamo, tuttavia, dei sussulti interessanti. Il sindacato inizia a rendersi conto della sua gestione fallimentare delle trasformazioni del lavoro, perché è la stessa ragione della sua esistenza che rischia di venir meno: quella concertazione che ne ha garantito il riconoscimento politico e sociale in cambio di una disponibilità che si illudeva di essere “riformista”, oggi, in modo ingrato, viene negata e ritenuta “conservatrice”. Assistiamo ad un “uso e getta” della concertazione sindacale, esattamente come si è registrato un “uso e getta” del lavoro.
Dal lato dei movimenti, ovvero dal lato di coloro che più negli ultimi anni sono stati in grado di cogliere le sollecitazioni che provenivano dalle nuove figure precarie del lavoro, per vari motivi – oggettivi e soggettivi (carenze organizzative o di forze o anche per presunzione e per divisioni ) – solo parzialmente sono stati in grado di coagulare la nuove soggettività potenzialmente conflittuali esistenti. L’opposizione al Job Act, a cui abbiamo partecipato a partire dall’indizione dello sciopero sociale del 14N, è ancora lungi dal dispiegare le sue potenzialità. Ma elementi di novità sono presenti, a partire dal simbolismo politico che rappresenta. Lo “sciopero” sociale , eredità in forme nuove ma con elementi di continuità teorica, dello “sciopero precario” , teorizzato ma mai proclamato un paio d’anni fa, può essere strumento in divenire di messa in moto delle soggettività precarie che oggi sono stritolati dalla ricattabilità imposta dal Job Act. Speriamo che sia in grado di spezzare quel cerchio di rassegnazione, impotenza e individualismo che oggi sembra essere prevalente in un rapporto di lavoro sempre più schiavizzato e in un’esistenza sempre più nuda.

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1 comment to Job act: dal lavoro precario al lavoro gratuito

  • Magistralmente inquadra lo status quo e usa termini appropriatissimi quali “disperante”. A me manca del tutto quel barlume di speranza che anima la fine di questo post, purtroppo.

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