I precari di tutta Italia a Bologna per preparare il loro primo sciopero generale

da Il Fatto Quotidiano / Emilia Romagna – 25 settembre 2011

Hanno organizzato gli stati generali er parlare delle esperienze e di come muoversi, anche dal punto di vista legale. “Siamo qui per far sentire la nostra voce. Anche a rischio di perdere il lavoro”
Una riunione che doveva essere informale, ma che alla fine si è trasformata in un’assemblea aperta: così si è aperta la due giorni degli Stati Generali, per organizzare il primo sciopero precario, previsto per il 15 ottobre prossimo.  Al Vag61, in via Paolo Fabbri, a Bologna, ragazzi provenienti un po’ da tutta Italia si sono trovati per discutere di precariato, per raccontarsi le proprie esperienze, come sportelli san precario, risorsa per chi un contratto stabile e sicuro non ce l’ha.

Prima dieci, poi una cinquantina di persone si sono sedute in cerchio, come alle assemblee d’istituto  in una scuola, e hanno parlato a turno di ciò che accade nella loro città e di come cambiare le cose a poco a poco in tutto il Paese. Perché essere precari non è solo una condizione lavorativa, ma è anche uno stato esistenziale spesso rifiutato, che coinvolge tutte le fasce d’età e che tende a isolare gli individui, allontanandoli dalla rete sociale.

Un pomeriggio di workshop e di riflessione in preparazione alla giornata di oggi, la Costituente vera e propria, istituita per organizzare il grande sciopero in tutta Italia.

Molti i temi già discussi. Primo fra tutti la necessità di stabilire una rete solida nel territorio italiano, di creare una sintonia che si traduca in una maggiore efficienza delle iniziative portate avanti. Poi si è parlato di battaglie, di sconfitte e di vittorie, di come la voglia di giustizia di chi è sfruttato si possa trasformare in partecipazione e conflitto, di come, per cambiare le cose, sia necessario denunciare e informare. “Perché l’ignoranza è sempre un’arma che si rivolge contro chi la impugna”.

Il progetto degli Stati Generali è nato nell’ottobre del 2010 e in questi mesi ha subito un’espansione vertiginosa, portando alla nascita di Punti san precario in sempre più città e regioni.

Milano, Roma, Bologna, Genova, Perugia, Caserta, Livorno, Bari. Sono solo alcune delle città rappresentate, solo alcuni dei luoghi dove la rete contro il precariato si è stabilita, fornendo un supporto a tutti coloro che questa condizione la subiscono.

Un supporto legale, pro bono, ma anche politico, una consulenza atta a spiegare al lavoratore quali siano le sue possibilità di rivalsa, quali siano i suoi diritti.

“Spesso” racconta Massimo Laratro, avvocato del punto san precario di Milano, “i giovani sono così abituati all’idea di essere precari, e del lavoro precario in generale, che quando vengono espulsi da una realtà, da un circuito lavorativo, pensano sia normale. Noi spieghiamo loro come muoversi”.

E la popolazione ha risposto a questa iniziativa con grande entusiasmo. Perché la zona grigia che è il precariato esclude spesso da quelle forme di tutela e di supporto che esistono oggi, e a volte c’è un vuoto da riempire che non è solo legale, ma anche politico e sindacale.

“Solo nel 2011, da gennaio a oggi”, racconta l’avvocato Laratro, “abbiamo seguito più di 150 vertenze legali. Ma il lato giuridico è un aspetto marginale di ciò che facciamo. Oggi bisogna dare coraggio ai lavoratori, per uscire dall’isolamento che questa condizione crea. Noi forniamo gli strumenti affinché le persone si organizzino nella loro realtà professionale, ma alla fine sono loro gli attori”.

Ciò che san precario vuole, ciò per cui lotta e scenderà in piazza il 15 ottobre, non è solo la mobilitazione dei precari, ma l’elezione del precariato come tema dominante dello sciopero. Il precariato inteso come male a cui serve una cura, una terapia fatta di un welfare più vicino agli standard europei, del diritto all’insolvibilità in tempo di crisi, di una politica che non sia di austerity, ma di crescita e di una moneta come bene comune, e non riservata alle oligarchie economiche.

“Noi non chiediamo molto”, continua Laratro, “ma senza maggiori risorse i precari continueranno a essere ricattati, e sotto ricatto non potranno rivendicare i loro diritti”.

L’Assemblea Costituente di oggi, a Bologna, sarà aperta a tutti, sindacati, movimenti, associazioni, cittadini. A tutti coloro che vorranno partecipare all’organizzazione dello sciopero precario, che vorranno “promuovere un’ideologia basata sul cambiamento, su una trasformazione che deve avvenire sia dentro sia fuori dalla sfera del lavoro”. Perché, ricordano i ragazzi seduti in riunione, “anche se è difficile per un precario scioperare e far pesare la propria assenza, pur rischiando di perdere il posto, se ci si organizza a rete, se tutti i precari incrociano le braccia, forse qualcosa può cambiare”.

di Annalisa Dall’Oca

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/25/i-precari-di-tutta-italia-a-bologna-per-preparare-il-loro-primo-sciopero-generale/159847/

Hub Meeting a Barcellona

Gli indignati d’Europa verso il 15 ottobre

Fulvio Massearelli

L’Hub Meeting della «democrazia reale» lancia la mobilitazione contro le politiche di uscita dalla crisi. L’intervento degli attivisti tunisini conferma la natura globale di questa agenda di lotta Tre giorni di lavori con la «rete di reti» che ha costruito lo spazio comune del conflitto sociale

«Convochiamo la cittadinanza il prossimo 15 ottobre, perché esprima il proprio rifiuto alle politiche di uscita dalla crisi e rivendichi una reale democrazia», si conclude così, tra gli applausi dei partecipanti, la dichiarazione dell’Hub Meeting di Barcellona che nel tardo pomeriggio di domenica ha terminato i lavori durati più di tre giorni.
Workshop, assemblee plenarie e tavoli di discussione tematici hanno intrecciato narrazioni di lotte e condiviso saperi tra le reti e i collettivi che dall’Islanda all’Italia hanno costruito uno spazio comune di confronto a partire dal conflitto e dall’opposizione sociale alla crisi. «Una rete di reti», si diceva all’apertura del meeting, che nel rifiuto dell’austerità come soluzione alla situazione attuale si impegnasse a mettere al centro dell’agenda politica la rivendicazione di un salario minimo garantito europeo e l’accesso effettivo e libero ai diritti sociali e ai beni comuni, dalla sanità all’educazione, dalla casa all’ambiente, fino alla conoscenza. E il 15 ottobre sarà l’occasione per far emergere nell’Europa dell’austerità questi contenuti che con intransigenza le piazze rivendicano ormai da tempo, anche e soprattutto sulla spinta del movimento del 15m, delle accampate spagnole, che durante i workshop e le assemblee sono state considerate nella loro straordinaria capacità di manifestare la crisi della democrazia rappresentativa da una parte e ad alludere alla possibilità da parte dei cittadini di riappropriarsi della politica a partire, come è stato scritto nella dichiarazione conclusiva, «dalla partecipazione diretta in tutti gli ambiti della vita sociale, politica ed economica».
Ma già dalla prima assemblea di giovedì, in cui si discuteva di «analisi delle lotte, strategie e buone pratiche», veniva sollevato da tutti gli interventi la necessità di guardare anche oltre l’Europa e considerare la crisi e i conflitti oltre il vecchio continente, parlando dell’apertura di una spazio di lotte definito ormai come «transnazionale» anche a fronte di un’assunzione della data di ottobre da parte di reti e collettivi impegnati nelle lotte contro la crisi fuori dall’Unione Europea.
A confermare il carattere non solo europeo, ma ormai globale, delle giornate di mobilitazione d’autunno, promosse da «takethasquare» e non solo, c’è stato anche un lungo intervento di attivisti tunisini in video conferenza, che nello spazio di discussione promosso dal Klf (Knowledge liberation front, rete che unisce ricercatori, docenti universitari e collettivi studenteschi) hanno lanciato il prossimo appuntamento, dal 29 settembre al 2 ottobre, a Tunisi per il meeting «Réseau 2 Luttes» (Reti di lotte), in cui l’agenda politica condivisa dai collettivi presenti all’Hub Meeting di Barcellona potrebbe risuonare anche in Nord Africa e oltre, così come le adesioni di questi ultimi giorni fanno ben sperare.
D’altronde austerità, debito e Welfare e riappropriazione dei beni comuni sono problemi e soluzioni al centro dell’iniziativa e del dibattito ai quattro angoli del mondo come ha ricordato un’attivista di Attac e come poi ha fatto eco il workshop promosso dagli Stati enerali della Precarietà e introdotto da Andrea Fumagalli, che ragionando sulle forme dello sciopero nei tempi della precarietà ha visto un vivacissimo dibattito tra i molti attivisti presenti, compresi gli inglesi di Uk Uncuts.
Ad arricchire il dibattito sulle pratiche si è poi aggiunto il workshop promosso dagli attivisti di democracia real ya, take the square, che hanno presentato un how to (un come si fa) delle accampate: l’uso corretto dell’hashtag di twitter (il segno # che permette di ricercare i twitts legati a un preciso argomento o evento), il costante lavoro nei quartieri degli attivisti, e la sperimentazioni di autogestione di spazi pubblici hanno descritto la quotidianità delle accampate e delle iniziative del movimento spagnolo che in ogni intervento non ha mai fatto mancare un forte riferimento all’importante laboratorio di piazza Tahrir de Il Cairo come esempio e motivo d’ispirazione.
Insomma se il calendario ha già segnato da un pezzo il 15 ottobre come data di convergenza globale contro la crisi e l’austerità, anche la carta geografia di questi movimenti disegnata da «reti di reti» sembra ormai voler assumere la forma di una sfera: il mondo disegnato al centro del logo #15oct, un appuntamento di lotta davvero globale.

tratto da  il Manifesto del 20/09/2011

della serie “A volte ritornano” -> Commento di Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara

dal manfo 05/07/2011

COMMENTO di Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara

Democrazia irriconoscibile

Allarma la falla che si è aperta nella società italiana e che incrina alcuni dei principi economico-sociali della nostra democrazia. A provocarla è l’intesa intervenuta tra Confindustria, da una parte e CGIL, CISL e UIL dall’altra. Le maggiori organizzazioni sindacali italiane intenderebbero riavviare così un processo unitario sulla contrattazione, auspicato ed auspicabile. Ma la partenza è preoccupante, la direzione sbagliata. L’intesa sancisce una compressione intollerabile dei diritti dei lavoratori e uno snaturamento della natura stessa del sindacato. Il diritto dei lavoratori di decidere con il proprio voto sugli esiti della contrattazione risulta precluso. Dalla fase iniziale del procedimento di formazione delle piattaforme fino alla loro conclusione, qualsiasi intervento delle lavoratrici e dei lavoratori è precluso. Scompare il diritto di pronunziarsi sui contenuti delle piattaforme e a indicare i margini del mandato. Nessuna direttiva può essere espressa, nessuna influenza esercitata, nessun orientamento suggerito sull’andamento della trattativa nelle fasi successive. La definizione dell´accordo e la sua sottoscrizione escludono qualsiasi pronuncia dei destinatari delle clausole contenute, siano o non iscritti ai sindacati. Il contratto collettivo nazionale viene in tal modo a configurarsi come atto normativo avente ad oggetto prestazioni e controprestazioni, il cui contenuto, la cui determinazione concreta (entità del salario, orari, tempi, modalità delle prestazioni e della vita in fabbrica) saranno decise, per le lavoratrici e i lavoratori, dai sindacati senza nessun intervento previsto dei lavoratori. Come se il diritto al salario – quello sancito, per esempio, dall’articolo 36 della Costituzione – pur spettando alla singola lavoratrice, al singolo lavoratore, potesse essere disponibile, quanto a determinazione, senza che possa esprimersi il titolare legittimo.
La natura del sindacato, e delle rappresentanze aziendale unitarie, di strumento dei lavoratori viene distorta, almeno per quanto attiene al profilo contrattuale. Se ne cambia il ruolo: quello di mandatario dell’esercizio del potere di negoziare i contenuti del contratto, per conto dei lavoratori e sulla base del mandato che gli è conferito, si trasforma in quello di titolare del potere contrattuale tout court. Lo si trasforma sopprimendo l’obbligo, una volta definito il contratto, di far decidere alle lavoratrici e ai lavoratori, titolari unici ed indefettibili del diritto a contrarre, su quel che si è ottenuto. Come se il contratto non avesse ad oggetto il salario e il carattere del lavoro, e col salario e il carattere del lavoro la qualità della condizione umana nella fabbrica ed oltre la fabbrica. Togliendo così alle lavoratrici ed ai lavoratori la possibilità di definire la propria condizione.
Sulla centralità della funzione dei sindacati per la democrazia economica, per la tutela dei diritti e la dignità del lavoro, per lo sviluppo della persona umana non abbiamo mai avuto dubbi. Abbiamo però ritenuto e riteniamo che la rappresentanza sindacale, perché specificamente inerente agli interessi economici dei lavoratori e delle lavoratrici nei loro rapporti di lavoro, debba essere effettiva, credibile, vissuta, verificabile. Non è come quella politica che si conferisce ogni quattro o cinque anni, che ha carattere generale ed è sanzionabile solo con il rifiuto della rielezione, ma pur trova nei referendum abrogativi il controllo sugli atti dei rappresentanti. Iscriversi ad un sindacato non comporta assolutismo fiduciario, non comporta delega senza mandato specifico sui contenuti del contratto di lavoro.
Ma è proprio sul contratto nazionale di lavoro, sulla configurazione che ne risulterebbe dall’intesa, che le preoccupazioni si aggravano. Nel contratto nazionale viene inserita una clausola dissolvente, quella delle deroghe, che sono tali ma in mentite spoglie. È dissolvente questa clausola per come configura le deroghe, non ne prevede limiti. Intanto, i fattori, gli stimoli, le pressioni per le deroghe si moltiplicheranno in ragione corrispondente ai condizionamenti, alle sollecitazioni, ai ricatti che sarebbero esercitati col successo derivante dalla flessione della solidarietà di classe che la deroga determina. La deroga, infatti, è dissolvente la stessa ragion d’essere del contratto collettivo che è quella di opporre alla parte più forte del contratto di lavoro la forza complessiva dei lavoratori. Forza che verrebbe infranta o, almeno, compressa dall´effetto negativo della deroga. Il contratto nazionale viene così abbattuto proprio nella sua ragione fondativa e quando più ce ne sarebbe bisogno.
Un ultimo ma non minore timore, non poca preoccupazione ci suscita la parola “tregua” usata dall’intesa per nascondere la rinunzia all’esercizio del diritto di sciopero. Quale altra possibilità, quale altro strumento di difesa, da usare o anche solo da trattenere nella sua disponibilità ed integrità, resterebbe ai lavoratori a fronte del potere sempre crescente ed invasivo del capitale ?
Riassumiamo in queste righe tutta la nostra apprensione di vecchi militanti del movimento dei lavoratori, la esprimiamo ai dirigenti della CGIL e, con pari fervore, a quelli della altre organizzazioni sindacali, ai leaders dei partiti democratici, a tutti coloro che sentono il dovere di difendere le conquiste sociali che hanno onorato la democrazia italiana. Con una preghiera: ascoltateci, e soprattutto ascoltate le lavoratrici e i lavoratori. Chiediamo, infine, a tutte le forze politiche democratiche, progressiste e di sinistra di dar vita ad uno spazio pubblico aperto a tutti per discutere questo passaggio storico nelle relazioni sociali del paese. Bisognerebbe essere consapevoli che, senza l’assunzione di una democrazia compiuta, le sinistre, in questa nuova fase, risulterebbero irriconoscibili. L’accordo tra la Confindustria ed i sindacati non è questione da poter essere confinata in una ordinaria vicenda sindacale, essa interroga direttamente e crudamente anche la politica.

Auchan, una domenica nel nulla per una mancia da 18 euro

Nel più antico ipermercato romano dipendenti in rivolta per il lavoro festivo

da Il Fatto Quotidiano di martedì 7 giugno 2011 di Luca Telese e Paola Zanca

Immaginate un fortino: un avamposto con le mura e gli spalti, che presidia il confine fra la città e la periferia, dove le strade non hanno nome e i palazzi sono sempre in costruzione. Quelli della vigilanza ti raccontano: “Quando apriamo le saracinesche, la mattina, sono già lì, in fila, soprattutto gli anziani”. Immaginate che dentro il tempio il clima è temperato in ogni stagione, che si entra con la macchina e non si paga pedaggio, e che ogni settimana ci sono nuove offerte. Infatti, anche se non c’è un Vangelo, c’è “Il Volantone”. Il volantone delle offerte. Ecco, se avete smesso di immaginare siete già arrivati alle porte del più antico Auchan d’Italia: Casal Bertone. Quello dove sabato scorso i dipendenti hanno scioperato, e dove i clienti (non tutti, per fortuna) hanno protestato: “Dovete lavorare, non potete chiuderci il supermercato”.

Per capire questa nuova variante della guerra fra poveri, dovete prima capire la scintilla che ha innescato la protesta: la richiesta dell’azienda che vorrebbe da tutti i dipendenti lo straordinario domenicale obbligatorio. Se volete capire il motivo della rabbia di questi lavoratori, quasi tutti giovani (o giovanissimi) partite dai loro stipendi: i “veterani” che lavorano a tempo pieno fin dall’apertura (13 anni fa) guadagnano fra 1.100 e 1.200 euro. I part time lavorano 16 ore a settimana, e raggiungono i 400 euro. La direzione del supermercato paga il lavoro domenicale 2.70 in più netti l’ora. Lavorare la domenica consente di guadagnare circa 18 euro in più. Vale la pena? Per molti sì. Per tanti no. Un tempo i rapporti con la direzione erano buoni, sembrava che i clienti fossero tutti felici di comprare. Adesso, Paolo (ma il nome è di fantasia) dice che “tutti sono diventati più feroci”. Anche la gente è cambiata, dicono. Anna, reparto elettrodomestici, non ha scioperato: “Semplice. Io le domeniche le devo fare tutte. Sono part time”.

Perché dentro il tempio lavorano quasi trecento persone. Ma la babele dei contratti è grande. Alle casse, per esempio non ha scioperato nessuno: “Nemmeno lo sapevo!”, dice una ragazza. Ai reparti, invece, in tanti: “Ti credo – spiega uno di loro, anonimo – la direzione ha messo delle persone a fare gli straordinari dai giorni prima, per prevenire l’effetto sciopero. E poi ha fatto sparire i nostri volantini, quelli in cui spiegavamo ai clienti le nostre proteste. Altri li ha strappati dalla bacheca”. Anche allo scaricamento hanno scioperato in pochi. I settori più duri sono presidiati dai part time. Al reparto pesca attaccano alle cinque. E qui c’è Mirko, un altro che ha lavorato: “Ho una fortuna: un caporeparto buono. Se chiedo una domenica di riposo, ogni tanto, me la dà. Ma che mi serve? Anche la mia ragazza lavora!”.

Un tempo c’erano i sindacati, tutti. Ora quelli confederali si sono quasi estinti. “Ti credo – spiega uno dei ragazzi della vendita – hanno firmato tutto, e se scioperiamo ci criticano!”. Il sindacato che ha organizzato lo sciopero è il Flaica Cub: “Abbiamo dovuto mobilitarci – spiega uno di loro – perché ora la direzione vorrebbe uniformare tutti i contratti in questo modo: si lavora tutte le domeniche, senza straordinario, come un normale giorno di lavoro”. Un altro ragazzo del reparto elettrodomestici: “Non ho scioperato, ma son solidale con chi lo ha fatto. A me le domeniche le hanno imposte con un trucco…”. Cioè? “Ero part time, e mi dissero: ‘Se vuoi il tempo pieno devi fare tre domeniche’. Così ho un contratto ad personam. Le devo fare comunque”. Il Volantino, a Auchan è molto più che un depliant, un testo sacro. Esce ogni settimana ed orienta il fiume dei clienti verso prodotti e settori del supermercato: “Adesso – spiega un’altra ragazza delle vendite – ci sono clienti che comprano solo le offerte. Ti faccio vedere: questa settimana pesce spada a 19.90 e albicocche a 1.99 euro al Kg? Ecco, loro comprano e mettono nel surgelatore, in attesa di tempi migliori”.

In realtà ti spiegano, gli slalomisti che comprano sempre l’offerta stracciata, e accumulano come formichine, sono una minoranza di massa. Quelli che contano di più sono coloro che gettano l’occhio anche intorno all’esca. Ma il paradosso è questo: i fedeli della domenica spendono molto di più di quello che guadagnano i commessi per tenere aperto il tempio. E i ragazzi dei reparti hanno uno sconto avaro: il 5%. Qui, nel fortino che presidia la periferia, nel tempio climatizzato del consumo, la guerra dei poveri è in questa doppia immagine. I clienti che la domenica si incolonnano davanti al garage indispettiti e quando vedono che il cancello è chiuso suonano il clacson per la rabbia. E i ragazzi che lavorano nel supermercato. Ma che per far quadrare i conti ti raccontano: “Il grosso della spesa la faccio al discount. Altrimenti con mille euro due figli come li sfamo?”. Recita il verbo del volantone: “Auchan, tutta la passione che meriti”.

I disoccupati over 40 si appellano a Tremonti Su Youtube, un video “per non essere scarti”

Il Fatto Quotidiano21 maggio 2011

Troppo vecchi per lavorare, troppo giovani per la pensione. In rete mandano un messaggio di denuncia al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: “Vogliamo dirle che noi, onorevole, noi espulsi dal lavoro , da questa crisi non siamo ancora usciti”. Cinque storie in quattro minuti di “disoccupati maturi”

In fondo dicono la stessa cosa: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e cinque disoccupati over40 che si sfogano in un video su Youtube che in pochi giorni è stato visto da 12mila persone. Il capo dello Stato ieri ha detto: “Oggi più che mai occorre un diritto del lavoro inclusivo ed equo”. Cioè leggi che rendano il mercato del lavoro “attento alla tutela dei diritti della parte più debole contrattualmente e alla riaffermazione rigorosa dei relativi doveri”.

Nel video di 4 minuti su Youtube dal titolo “Non siamo scarti”, Marco Sanbruna, 46 anni, Dilva Giannelli, 58 anni, Fedele Sposato, 63 anni, Nicola Di Natale, 57 anni, Giovanni Laratta, 54 anni, si appellano al ministro dell’Economia Giulio Tremonti: “Vogliamo dirle che noi, onorevole Tremonti, noi espulsi dal lavoro quando avevamo già compiuto i 40 anni, da questa crisi non siamo ancora usciti”.

A promuovere l’iniziativa è l’associazione Atdal, per la tutela dei diritti dei lavoratori over 40. Armando Rinaldi racconta com’è nata: “Sono un ex dirigente della Philips ora in pensione. Mi hanno buttato fuori a 51 anni, nel 1999, quando mi mancavano cinque anni alla pensione, quindi ho dovuto lavorare come free lance”. In quei cinque anni prova a scalfire la solitudine che prova chi è nella sua situazione: “So che può sembrare incredibile, ma è andata così. Compro cinque o sei giornali al giorno, leggo sempre le rubriche delle lettere dei lettori. Così ho iniziato a scrivere a tutti quelli che raccontavano situazioni analoghe alla mia, in un anno ho messo insieme 3-400 contatti a livello nazionale. Poi è nata l’associazione, nel 2002”. Vi partecipano “disoccupati maturi”, come vengono pudicamente definiti, con storie come quelle dei cinque protagonisti del video. Persone come Dilva Giannelli, 58 anni, pubblicitaria vittima di un “tagliatore di teste aziendale” che dieci anni fa viene convinta ad acettare una buonuscita, soltanto per poi dover aprire una partita Iva e mettersi in competizione con giovani precari a 750 euro al mese. Nicola Di Natale ha 57 anni e lo sguardo triste di chi si è trovato in mobilità con la promessa di ritrovare il suo posto di autista in una multinazionale milanese. L’azienda si è ripresa ma non ha ripreso lui: “T’è capì i furbacchioni?”, commenta in milanese. Unica prospettiva realistica: aspettare la fine di ogni ammortizzatore sociale e scoprirsi povero. Peggio perfino dei “working poor”, i lavoratori con salari da fame, la categoria che più appassiona oggi i sociologi.

I “disoccupati maturi” sono tanti: secondo l’Istata 512 mila tra i 35 e i 44 anni, 327 mila tra i 45 e 54 anni, altri 100 mila tra i 54 e i 65. Senza contare gli scoraggiati che non cercano più lavoro e i cassintegrati che sono spesso disoccupati mascherati. Ma i loro sono drammi individuali, che faticano a trovare una narrazione comune. “Mi piacerebbe abbracciarli a uno a uno e urlare loro «non permettete a nessuno di uccidere i vostri sogni», ma le mie sono solo parole increspate da un’emozione”, scriveva giovedì Massimo Gramellini su La Stampa. Su Youtube si accumulano le storie, nei commenti al video. Un certo Marco scrive: “Vi invito a incanalare le energie verso l’impegno per contrastare l’assurdità di questo mondo del lavoro che ci vuole escludere. Scegliete voi la forma: impegno sindacale, partitico, associazionismo. Ma non rassegnatevi a essere scarti”. Si attende la risposta del ministro Tremonti.