Censimento, “contratti illegali”

da L’Espresso
Censimento, “contratti illegali”
di Gianluca Schinaia – FpS Media (16 febbraio 2012)

Oggi sono quasi un centinaio i rilevatori milanesi attivi nella protesta: hanno creato un blog, poi video promozionali, quindi marce di protesta simboliche e sit-in, tra cui uno davanti al Teatro La Scala. E infine assemblee organizzate, osteggiate anche dalle forze dell’ordine, come racconta Gianluca Cangini, uno degli attivisti milanesi: «Ho fatto richiesta ufficiale per svolgere il 30 gennaio scorso un’assemblea in un locale del Comune. Abbiamo mandato un fax all’assessore di riferimento, al dirigente dell’Istat, al diretto responsabile del sevizio: non abbiamo ricevuto nessuna risposta. Fino alle 15 del giorno stesso, quando l’assemblea era prevista alle 17, solo allora ci è stato detto che non potevamo in quanto non dipendenti del Comune: non c’era più tempo per spostare la riunione e gli operatori dell’ufficio ci hanno gentilmente concesso di svolgerla ugualmente. A un certo punto è arrivato un funzionario del Comune e poi la Digos a metà dell’assemblea dicendo che non era autorizzata e che dovevamo andarcene».

Successivamente i rilevatori hanno scioperato davanti alla sede di via Marsala, spiegando ai cittadini il perché della loro protesta. Una strategia concreta e diversificata che ha portato al risultato di un incontro ufficiale che si terrà il prossimo 16 febbraio, su invito diretto del direttore generale del Comune di Milano Davide Corritore, uomo-chiave della strategia comunicativa che ha portato Giuliano Pisapia alla guida di Palazzo Marino.

D’altra parte, il contratto illegittimo denunciato dai rilevatori era stato preparato dall’ex giunta di Letizia Moratti. Ma in ogni caso, grazie al sostegno del Movimento San Precario, i rilevatori hanno condotto una strategia che pare porterà ad una risoluzione positiva della faccenda.

L’esempio di Milano è stato recepito da Latina. «All’inizio di novembre», spiega Cristian Iannuzzi, uno dei rilevatori della città laziale, «il Comune ci ha convocato per firmare il contratto, assicurandoci che nel giro di qualche giorno ce ne avrebbe restituito una copia insieme al tesserino, indispensabile per poter andare casa per casa». Invece niente tesserino, niente contratto, niente anticipi. Eppure i rilevatori hanno svolto il loro lavoro, per di più senza copertura assicurativa e mettendo di tasca propria i soldi per la benzina o la cancelleria. Anche in questo caso, secondo i rilevatori, il funzionario dell’Istat ha assicurato che il Comune di Latina ha già ricevuto un anticipo, utile quindi a pagare i rilevatori. Così i lavoratori laziali hanno chiamato Milano e chiesto consigli su come procedere.

Presto potrebbe succedere anche a Bari, dove i rilevatori sono pagati tra i 3 e i 6 euro lordi per questionario: prestazione occasionale e auto-muniti (neanche i rimborsi per i mezzi pubblici). Rapporto di lavoro occasionale e meno di 6 euro a questionario anche per i rilevatori di Pescara, Modena, Torino e Messina. Mentre a Palermo almeno c’è una retribuzione fissa di circa 300 euro al mese che si aggiunge a quella variabile sul numero di questionari compilati. Viene da chiedersi come sia possibile che nel capoluogo siciliano come a Bologna si riesca ad assicurare un fisso ai lavoratori, mentre ciò non succeda nelle altre città, visto che l’Istat paga nello stesso modo a prescindere dalle località. E soprattutto dove i prossimi rilevatori si animeranno per protestare contro il proprio comune di riferimento. A Milano suggeriscono che la chiamata di Latina non sia stato un episodio isolato: ormai i lavoratori precari sono autonomi anche nelle proteste. E indipendenti dai sindacati.

Politiche d’austerity e ristrutturazione del debito in Grecia

12 / 02 / 2012  tnx http://uninomade.org/
di Andrea Fumagalli

L’imposizione di nuove misure draconiane per la riduzione del debito in Grecia da parte della troika economica europea sta assumendo delle forme paradossali.

Per la Grecia si tratta della quinto intervento di tagli in 18 mesi. La ricetta è contenuta in un documento di 51 pagine frutto di settimane di trattative. L’obiettivo immediato è quello della riduzione della spesa pubblica di 3,3 miliardi di euro solo nel 2012: per farlo si dovranno tagliare le pensioni supplementari del 15%, gli stipendi minimi del 22% e quelli dei giovani neoassunti tra i 18 e i 25 anni del 32%, con un blocco per almeno tre anni. Questa sforbiciata si porterà dietro, a cascata, una riduzione di tutti gli altri salari e, probabilmente anche del sussidio di disoccupazione, che attualmente è fissato in 461 euro (lo stipendio minimo invece è di 751 euro, lordi).

Questi nuovi provvedimenti tendono a peggiorare in primo luogo le condizioni salariali e del mercato del lavoro, mentre le precedenti hanno privilegiato soprattutto interventi sulle entrate fiscali e sulla spesa pubblica. Di fatto, le cinque leggi d’austerity greche come le analoghe italiane, spagnoli e portoghesi seguono un medesimo canovaccio: aumento delle entrate fiscali e riduzione della spesa pubblica, il tutto condito da provvedimenti volti alla riduzione del costo del lavoro e al disciplinamento del mercato del lavoro. Per aumento delle entrate fiscali si intende esclusivamente l’aumento dell’Iva (portata al 23% sia in Grecia che in Italia) e delle accise  e delle tariffe dei beni di largo consumo la cui domanda, risultando rigida al prezzo, è difficilmente contraibile (dalla benzina ai prodotti energetici, al tabacco, così come nel XIX secolo si interveniva con la tassa sul sale e sul macinato): interventi che, avendo natura regressiva, incidono in modo pesante sui redditi medio bassi. Si tratta di provvedimenti imposti anche ad altri paesi europei (come l’Italia e Spagna) che, in seguito all’aumento dell’Iva, porteranno ad un aumento del livello dei prezzi europei, imponendo così nuovi vincoli restrittivi alla politica monetaria europea. Fintanto che l’art. 105 del Trattato di Maastricht, che impone l’obbligo per la Bce di rispettare il limite del 2% annuo per il tasso d’inflazione, non verrà modificato o allentato, il probabile esito di tali manovre sarà indirettamente di controllare l’inflazione non più tramite un aumento dei tassi d’interesse ma  tramite una riduzione dei costi di produzione, ovvero del lavoro. E a tal fine,  non è un caso che in Grecia, come in Italia e in Spagna si attuano provvedimenti diretti (Grecia) o  riforme del mercato del lavoro (Italia e Spagna) con tale obiettivo.

Per la riduzione della spesa pubblica, invece, tre sono gli strumenti prevalentemente utilizzati: i licenziamenti di massa nel pubblico impiego, che in Grecia hanno raggiunto la soglia dei 40.000, in seguito alla nuova ondata di dismissioni (15.000) prevista nei provvedimenti di questi giorni; l’ulteriore smantellamento dello stato sociale, con particolare riferimento ai settori che sono più appetibili per la speculazione finanziaria, ovvero previdenza, sanità e istruzione. In questo campo, la Grecia ha fatto da apripista, ma l’Italia non ne è da meno. Infine, la vendita del patrimonio pubblico e la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità. Il tentativo di risolvere la crisi del debito, proprio quando il processo di accumulazione e valorizzazione si fonda sempre più marcatamente sullo sfruttamento e l’espropriazione del “comune”, si caratterizza dunque con l’affermazione del dominio del privato non solo sul pubblico, ma soprattutto sul “comune”.

Gli esiti di questi provvedimenti sono sotto gli occhi di tutti. Il caso greco è emblematico. La Grecia è al quarto anno di recessione, nel 2011 il Pil è calato di oltre il 7% e, nonostante la cura da cavallo, proprio per l’effetto recessivo delle politiche di austerity, il rapporto debito/pil non è calato come ci si attendeva, ma è addirittura aumentato di 4,4 punti, portandosi al valore di 159,1%. Con questa quinta finanziaria, l’obiettivo è raggiungere il livello del 120% nel 2020. Obiettivo del tutto pretestuoso e chiaramente irrealizzabile.

Eppure la troika economica fa, strumentalmente, finta di crederci e la Germania appare oggi più di ieri preoccupata di un possibile default greco. E’ chiaro che gli interessi sono altri e altrove. Ed è qui che sta il paradosso. Tutti hanno paura del default greco, non perché preoccupati per la possibile crisi dell’Euro (forse qualcuno si) ma per le proprie tasche. Se la Grecia, infatti, facesse veramente default e i titoli greci diventassero titoli spazzatura, ci sarebbe un impatto molto negativo su alcune banche europee, soprattutto francesi e tedesche. Infatti dei 355miliardi di euro del debito pubblico greco, 125 (più di un terzo) sono detenuti dalle banche e dai fondi di investimento europei, 50 dalle banche greche,  30 dai fondi sociali e assicurativi greci. A ciò, occorre aggiungere che 55 miliardi sono detenuti dalla BCE, per un totale di 260 miliardi. La rimanente parte del debito è composta da prestiti internazionali, di cui 20 da parte del FMI e 53 dai paesi dell’Europa (la sola Germania per una quota di 15 miliardi).

In un tale contesto, il default sarebbe estremamente costoso per il portafoglio dei creditori privati e anche pubblici ed è proprio questa elementare constatazione a spingere verso la soluzione di una ristrutturazione del debito greco. E qui la questione si fa interessante dal nostro punto di vista, ovvero dal punto di vista di chi sostiene il diritto al default. Sulla base delle prime indiscrezioni (l’argomento è non a caso volutamente taciuto dai grandi media) e dopo un primo incontro tra l’Institute of International Finance (IIF, che rappresenta circa 450 istituzioni private) e le autorità greche, si sta cercando di arrivare ad un primo possibile accordo che dovrebbe prevedere una svalutazione tra il 65 e il 70 per cento del valore nominale dei bond greci e un’estensione a trent’anni dei titoli con un tasso di interesse medio del 4 per cento (3,5 per quelli a breve termine, 4,6 per quelli a lungo termine). In cambio, i creditori riceverebbero titoli a breve scadenza del fondo europeo Salva Stati (EFSF) per un valore pari al 15 per cento dei loro crediti nei confronti di Atene. In questo modo, la Grecia potrebbe ridurre di 100 miliardi il suo debito (poco più di un quarto).

I punti di attrito riguardano essenzialmente il livello del tasso d’interesse per i titoli greci e la platea dei creditori che dovrebbero accettare la svalutazione dei titoli. Riguardo il primo punto, le banche tedesche, con alla guida Deutsche Bank, ritengono insufficiente un tasso d’interesse del 4%. Riguardo il secondo punto, si chiede che il processo di svalutazione riguardi anche la quota di titoli detenuta dalla BCE e non solo quella “privata”.

Secondo uno studio condotto dall’Istituto per l’economia mondiale di Kiel e pubblicato dallo Spiegel (http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,810645,00.html), nemmeno una ristrutturazione del debito del 65-70 per cento sarebbe sufficiente per la Grecia (inizialmente si era parlato addirittura del 50 per cento). Infatti, secondo questo studio, i tassi di interesse attuali sarebbero insostenibili per il debito greco. Non a caso la Germania (al contrario delle banche tedesche) e il Fondo Monetario Internazionale nelle ultime settimane hanno fatto molte pressioni sui creditori privati per abbassare ancora di più i rendimenti dei nuovi bond. Lo Spiegel scrive che, se gli interessi rimanessero quelli attuali, per salvare la Grecia servirebbe un taglio del debito di almeno l’80 per cento, il che implicherebbe un ulteriore intervento da parte dei paesi europei e della Banca Centrale Europea. Ma tale quota potrebbe diminuire se l’opera di “haircut” (letteralmente taglio di capelli, come in gergo finanziario si indica la svalutazione forzosa di un titolo) venisse estesa anche alla BCE.

Al momento non siamo in grado di sapere che tipo di accordo verrà raggiunto, ma siamo abbastanza certi che un accordo ci sarà. E una delle condizioni sta proprio nell’imposizione dell’ultima serie di interventi draconiani contro il popolo greco. Essi servono non a ridurre il rapporto debito/pubblico ma a garantire quel minimo di liquidità per poter da un lato ricevere altri prestiti internazionali e dall’altro garantire i fondi per la ristrutturazione del debito e riassicurare i creditori. Poi tra un anno se ne riparlerà. Di fatto, in Grecia si sta applicando una sorta di default controllato (svalutazione del 70% del valore dei titoli posseduti dagli investitori istituzionali), il cui costo tuttavia viene fatto ricadere pesantemente sulle condizioni di vita del popolo greco. Si dimostra che tale possibilità di default controllato è possibile e che è comunque una soluzione preferibile alla bancarotta statale. Esso però viene agito contro chi non è responsabile della crisi del debito greco. Alcune banche avranno perdite patrimoniali, ma tali perdite  verranno in beve tempo compensate dal fatto che il diritto alla speculazione viene salvaguardato proprio grazie alle misure d’austerity.

La nostra idea di pratica e  diritto al default è invece indirizzato contro la speculazione finanziaria. Oltre allo strumento tecnico, occorre quindi una capacità politica e sociale tale da mettere in discussione la legittimità della governance dittatoriale della troika economica. Da questo punto di vista, Italia e Grecia sono molto simili. Non solo nelle misure che vengono intraprese, ma anche nella recente dinamica golpista  che le ha caratterizzate, nonostante ciò che dica uno dei sostenitori di tale golpe economico-finanziario che è anche, ahinoi, Presidente della Repubblica.

 

http://uninomade.org/politiche-dausterity-e-ristrutturazione-del-debito-in-grecia/

Istat, il divario tra salari e prezzi mai così alto dal ’95.

(ed i salari ed i diritti nel frattempo sono crollati: negli ultimi dieci anni rispetto alle rendite e ai profitti il rapporto di 60% e 40% sulla totalità della ricchezza si è invertito a favore di questi ultimi)

Crolla la fiducia dei consumatori Le retribuzioni contrattuali orarie aumentano dell’1,4% ma il livello d’inflazione cresce del 3,3%, su base annua. Per una famiglia monoreddito che vive con 1500 euro al mese ciò rappresenta una diminuzione del potere d’acquisto di 342 euro al’anno I salari crescono, ma cresce anche l’inflazione e lo fa su base doppia rispetto alle retribuzioni. Diminuisce, quindi, sensibilmente il potere d’acquisto delle famiglie italiane. A dirlo è l’Istat che ha rilevato come nel 2011 le retribuzioni contrattuali orarie sono aumentate dell’1,4% ma che anche i prezzi sono cresciuti, del 3,3%. Una differenza pari a 1,9 punti percentuali, la più alta rilevata dall’agosto del 1995.

Rispetto al 2010, quando la crescita delle retribuzioni contrattuali orarie si era attestata al 2,2%, la frenata registrata nel 2011 è, quindi, forte. Guardando ai diversi settori lavorativi, aumenti significativamente superiori alla media si registrano per i comparti militari-difesa (+3,3%), forze dell’ordine (+3,1%), gomma, plastica e lavorazioni minerali non metalliferi (+3,0%). Mentre le variazioni più contenute interessano ministeri e scuola (per entrambi l’aumento è dello 0,2%), regioni e autonomie locali e servizio sanitario nazionale (0,3% in ambedue i casi).

Cala la fiducia dei consumatori mai così bassa dai livelli raggiunti nel 1996, ovvero da quando è iniziata la rilevazione di questo dato. In una nota congiunta di Abusbef e Federconsumi si afferma che “i redditi delle famiglie, secondo quanto rilevato da un’indagine di Bankitalia, risultano inferiori addirittura a quelli del 1991. Il potere di acquisto delle famiglie a reddito fisso è diminuito dell’1,9%. Questo significa, – continuano le due associazioni – per una famiglia media monoreddito che percepisce un reddito di 1.500 euro al mese una diminuzione del potere di acquisto pari a 342 euro l’anno, mentre nel caso il reddito percepito sia di 2.000 euro al mese la diminuzione del potere di acquisto è pari a 456 euro l’anno”. E questo mentre la prezzi e tariffe sono in incessante crescita: le prime previsioni dell’Osservatorio Nazionale Federconsumatori “prospettano nel 2012 un aumento pari a 392 euro a famiglia solo per quanto riguarda il settore alimentare. Aggravi, tra l’altro, destinati a peggiorare anche sulla spinta degli aumenti determinati dalla serrata dei tir”.

E Raffaele Bonanni, segretario Generale della Cisl, ha commentato:”Per alzare i salari e far ripartire i consumi, che sono fermi, come sottolinea oggi l’Istat, occorre un patto sociale per la crescita, il lavoro e l’equità. Le previsioni per l’Italia rilevano una situazione di recessione con pesanti implicazioni in termini di redditi di famiglie e di occupazione. Serve un vera negoziato tra Governo, forze politiche e sindacati”.

Chi produce i nostri Ipad

di Andrea Pira
24/01/2012
Apple rilascia per la prima volta una lista completa dei fornitori di componenti hi-tech (tra cui la controversa Foxconn), dettagliando i passi in avanti compiuti per la sicurezza e il rispetto delle condizioni di lavoro. Ma rimangono ancora molte violazioni.

Per rispondere alle critiche sull’inadeguatezza delle condizioni lavorative degli operai impiegati nella catena produttiva, la Apple ha deciso di pubblicare l’elenco dei propri fornitori.

Una lista di 156 nomi che, sebbene non completa, include il 97 per cento delle aziende che lavorano con Cupertino. Tra queste grandi nomi come Intel o Nyidia, entrambe produttrici di chip, o ancora Samsung Electronic, Toshiba, Panasonic, Sony, fino ad arrivare a realtà meno note come la Zeniya Alluminum, la Ji Li Molud Manifacturing, la Unisteel Technology.

Nell’elenco figura anche la Hon Hai, l’azienda taiwanese più conosciuta come Foxconn, il cui nome è legato a una serie di suicidi o tentati suicidi che hanno coinvolto almeno 18 dipendenti, negli stabilimenti cinesi dove sono assemblati l’Ipod e l’Ipad e i cui impianti sono stati teatro di almeno due esplosioni che hanno fatto quattro morti e oltre settanta feriti.

L’ultima protesta che ha  visto coinvolta la società diretta da Terry Gou, questa volta contro i trasferimenti a un’altra linea di produzione, è stata appena all’inizio del mese. Almeno 150 dipendenti hanno minacciato di gettarsi dal tetto di un impianto a Wuhan, nella Cina centrale, dove tuttavia la Apple, prima azienda tecnologica ad aderire alla Fair Labour Association, non ha niente a che fare.

Foxconn a parte, sui cui stabilimenti la società orfana di Steve Jobs aprirà un’indagine, e nonostante i propositi di Apple per monitorare e migliorare le condizioni di lavoro soprattutto nei Paesi asiatici come Malaysia e Singapore, sfogliando il rapporto sulle Responsabilità sociale diffuso venerdì, rimangono molti punti neri.

I casi di lavoro minorile riscontrati in almeno 5 impianti sono stati 19, in diminuzione rispetto ai 91 dell’anno prima. Un calo dovuto soprattutto al maggior numero di ispezioni, ma comunque di più rispetto agli 11 del 2009. Sul fronte dell’orario di lavoro, soltanto il 38 per cento dei fornitori rispetta il limite delle 60 ore settimanali fissato da Cupertino.

Il punto non è tanto quanto le aziende rispettino gli standard Apple”, si legge tuttavia in un analisi del China Labour Bulletin, “ma quanto rispettino le leggi del Paese in cui operano”.

L’organizzazione di Hong Kong snocciola alcune cifre. Le leggi cinesi fissano il tempo di lavoro in 40 ore settimanali, cui possono aggiungersi 36 ore di straordinari al mese. Il totale è quindi di 49 ore alla settimana. Undici in meno dei limiti stabiliti dalla Mela.

Inoltre, “la Apple continua a non specificare quali aziende commettono le violazioni”, continua Geoffrey Crothall del CLB, “Il rapporto sarebbe molto più utile se mettesse in relazione il comportamento delle società con le leggi dei singoli Paesi”.

Sul fronte dell’impatto ambientale lo scorso settembre i fornitori della Apple sono finiti nel mirino delle organizzazioni verdi cinesi per il rilascio di sostanze tossiche nell’aria e nei fiumi, causa dell’alta percentuale di casi di cancro tra la popolazione.

Come notano i critici, nel rapporto mancano informazioni sull’esatta localizzazione degli impianti o sono omessi alcuni nomi, come nel caso della Kaedar Electronic, tra le aziende sotto accusa per la questione inquinamento, perché sussidiaria di una società più grande, la Pegatron.

“Molte società hanno il loro momento Nike”, ha detto a Bloomberg il presidente della Fair Labour Association, Auret van Heerden in riferimento alla scelta del gruppo di abbigliamento sportivo di unirsi all’associazione dopo le denunce sugli abusi e le violazioni nelle fabbriche asiatiche negli anni Novanta, “capiscono quanto sia difficile mantenere alti standard in un mercato globale”.

[Scritto per Sky. Fotocredits: sky-it]

Spese militari, rivolta contro i supercaccia Costeranno allo Stato 13 miliardi di dollari

Già prenotati 131 caccia F35. Di Paola:«Sono indispensabili»
Protesta dei pacifisti e del vescovo di Pavia Giovanni Giudici

ROMA – Un coro sempre più squillante si leva da alcuni giorni contro le spese militari. Gruppi pacifisti, esponenti della Chiesa come il vescovo di Pavia Giovanni Giudici, e perfino l’Unione italiana sportivi, tutti concentrano i loro strali contro un bersaglio preciso: il programma Jsf, ideato per la produzione di un cacciabombardiere americano conosciuto con la sigla F35. Un jet supertecnologico che dovrebbe rimpiazzare per i prossimi 40 o 50 anni le flotte aeree di Stati Uniti e degli alleati.

LE SPESE ITALIANE – L’Italia si è impegnata ad acquisire 131 velivoli spendendo una cifra che, sia pure spalmabile in un ventennio, è colossale: circa 13, forse 15 miliardi di dollari. Secondo i detrattori, è «uno spreco scandaloso». E allora bisognerebbe cancellare l’accordo con la Lockheed Martin, che sta facendo i collaudi sui prototipi del velivolo? In altre parole, serve all’Italia un aereo di quel tipo? Certo che serve, replica l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi (Pd). Serve «per difenderci da eventuali minacce esterne». Come sbarriamo le finestre delle case con le inferriate, dice Parisi, così dobbiamo dotarci dei mezzi adatti a proteggere il territorio nazionale. Non è solo un problema di sicurezza. Ne va di mezzo anche l’immagine del nostro Paese. «Per partecipare alle operazioni dell’alleanza di cui facciamo parte – osserva l’ammiraglio Marcello De Donno, ex capo di stato maggiore della Marina – è necessario mettere in campo strumenti adeguati. Altrimenti è inutile lamentarci se la Germania ci colonizza e siamo relegati alla periferia dell’Impero».

IL PARLAMENTO – Ma le missioni estere ricadono soprattutto sugli uomini dell’Esercito, ribatte Rosa Calipari (Pd) che fa parte della commissione Difesa della Camera. Allora meglio dotare loro di armamenti d’avanguardia. È intollerabile, secondo la Calipari, «che le strategie future e i sistemi d’arma siano decisi dal governo senza l’approvazione del Parlamento. Sul Jsf volevamo capire l’utilità, i costi. Ci è stato impossibile». Il programma Jsf (Joint strike fighter) nasce nel 1996. A Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi, che decise di coinvolgere l’Italia nel progetto. Due anni dopo, con Massimo D’Alema premier, arrivò anche l’okay del Parlamento. Una scelta del centrosinistra condivisa dai successivi governi di centrodestra. Nel 2002 l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, come direttore nazionale degli armamenti siglò il primo memorandum d’intesa con gli americani. La firma sull’accordo definitivo la mise nel 2007 Giovanni Lorenzo Forcieri (Pd), sottosegretario alla Difesa con Parisi ministro. «Fu un ottimo accordo – ricorda Forcieri -. Prevede la costruzione in Italia di oltre 1200 ali del velivolo con la relativa tecnologia elettronica. Inoltre a Cameri, in provincia di Novara, sorgerà il centro per la manutenzione di tutti gli F35 acquistati dai Paesi europei».

LE VERSIONI – Il cacciabombardiere americano è concepito in tre versioni diverse: dovrebbe sostituire i Tornado e gli Amx dell’Aeronautica, ma anche gli Harrier della Marina sulla Cavour, perché una delle varianti permette il decollo breve e l’atterraggio verticale. Diventerà operativo non prima di 7, forse 8 anni. Un arco di tempo entro il quale gli aerei italiani vanno comunque sostituiti. Se si rinuncia all’F35, bisognerà pensare a una soluzione alternativa. Oppure, come suggerisce lo studioso Luigi Cancrini, rinunciare del tutto «perché non ci servono aerei da guerra». L’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, non ha nessuna intenzione di cancellare l’accordo con gli americani. Quando gli chiediamo se vanno presi tutti i 131 Jsf prenotati, lui risponde un po’ seccato: «Siete fissati coi numeri». Poi aggiunge che «il ridimensionamento non riguarderà solo il personale ma anche i mezzi. Quanti Jsf acquisiremo non lo so. Quel velivolo è comunque importante, è uno strumento con capacità fantastiche, ritengo che si debba investire sulle capacità, in che misura non sono in grado di dirlo, non posso fare numeri, 131 è una cifra che si riferisce ai programmi fatti all’inizio, ma ora va rivista».

Marco Nese